Olimpiadi di Parigi

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Los Angeles: una città olimpica quarant’anni fa

Mentre si avvicinano i Giochi di Parigi, torniamo attraverso l’archivio Domus alle Olimpiadi del 1984, che trasformavano la città californiana in fuoco d’artificio postmoderno teso tra leggerezza e spirito di comunità.

Dall’Atene del 1896, con la mistica delle Olimpiadi moderne aperte in uno stadio che era lo stesso dal 560 a.C., alla Londra del 2012, trasformata dall’evento olimpico in continuità quasi lineare con i grandi interventi di inizio millennio, passando per la svolta storica della Barcellona del 1992, il rapporto tra grande evento e città, tra segno costruito e identità urbana ha costituito sempre di più il punto caldo delle gare che, nello spirito di De Coubertin, dovrebbero portarci a incontrarci nella pace, nonostante la numerose guerre a cui sono sopravvissuti. Qual è l'eredità che, finiti i pochi giorni di competizioni, le Olimpiadi lasciano alla città? Ma soprattutto, cosa portano come valora aggiunto al suo spazio e alla sua identità?
Nel 1984 le Olimpiadi arrivano a Los Angeles: sono le prime finanziate da un capitale completamente privato, e devono confrontarsi con una città che per definizione tende a “scappare” in diverse direzioni con diverse vocazioni, da una downtown a misura d’auto alle colline punteggiate dalle estetiche di Hollywood, Beverly Hills e del California modern, nel pieno del periodo in cui l’immaginario statunitense si tuffa nel postmoderno. Un design team decisamente variegato progetterà allora un sistema di arredi urbani che sono segni, e anche personaggi piuttosto difficili da ignorare, della manifestazione, e Domus li pubblicherà nel dicembre di quell’anno sul numero 656, in un servizio che indaga lo spazio pubblico in diversi angoli del mondo.

Domus 656, dicembre 1984

Arredo Urbano a Los Angeles/Attrezzature Olimpiche

Il festoso progetto di immagine dei giochi olimpici: una effimera kermesse di colori e forme che riflette il clima culturale californiano.

Dopo alcuni anni di convegni, dibattiti, concorsi e progetti, l’organizzazione e riqualificazione dello spazio urbano sembra finalmente una pratica progettuale in atto. I risultati sono estremamente eterogenei, ma si può capire come le diverse situazioni politiche, sociali e culturali possano di volta in volta condizionare i risultati. Riportiamo qui di seguito alcuni esempi di realizzazioni che dimostrano in modo eloquente i diversi approcci metodologici, formali in rapporto alle diverse situazioni urbane di intervento.

La formula grafica è semplice, il design essenziale, il risultato decisamente spettacolare. Miscelare vigorosamente rosso pervinca, vermiglione e acqua marina; aggiungere una buona dose di giallo ocra e lasciare in sospensione: vi apparirà un mondo nuovo, fatto per l’uomo di ogni paese.

Nella stesura del nostro progetto non abbiamo mai dimenticato che le Olimpiadi, prima di ogni altra cosa, sono una grande festa, un grande spettacolo che coinvolge i paesi di tutto il mondo.

Jon Jerde

Domus 656, dicembre 1984

Anche il nome è facile e orecchiabile: “Festive Federalism”, federalismo in festa; non già la risposta risolutiva ai problemi dell’umanità, bensì la parola giusta al posto giusto per un evento di portata storica: Olimpiadi a Los Ange es, California, edizione 1984 dell’era moderna.

Sono bastati due anni — è un record — per ideare e realizzare lallestimento scenografico degli ultimi giochi olimpici. Ed è stato un tempo sufficiente per pensare a tutto, dai padiglioni del villaggio olimpico alle pedane di gara, dai distributori dei programmi alle edicole e al colore dei biglietti. Il team di oltre 60 designers e architetti ingaggiato dal Comitato Olimpico organizzatore di Los Angeles è quello di Deborah Sussman e Paul Prejza della Sussman/Prejza and Co. Inc., per la parte grafica, con la consulenza generale di Jon Jerde e David Meckel.

Il loro lavoro, nella concezione complessiva e nei dettagli, ha corrisposto pienamente alle aspettative dei committenti, che si aspettavano qualcosa di insolito per questi giochi.

I presupposti per una inedita “prima”, comunque, c’erano tutti. Per la prima volta nella storia dello sport, infatti, una olimpiade era organizzata e finanziata esclusivamente da capitale privato, con l’esplicito intento di offrire uno spettacolo ai massimi livelli, senza gravare sulle tasche dei cittadini. E accanto al capitale non è mancata l’inventiva.

Domus 656, dicembre 1984

“Partendo da una struttura preesistente — afferma Jon Jerde — abbiamo studiato il modo migliore per ‘vestirla’, tenendo presente alcuni punti fissi. Nella stesura del nostro progetto non abbiamo mai dimenticato che le Olimpiadi, prima di ogni altra cosa, sono una grande festa, un grande spettacolo che coinvolge i paesi di tutto il mondo. Si trattava quindi di conferire all’insieme un carattere equilibrato attraverso la combinazione del più ampio spirito di internazionalismo con l’adesione alla cultura e al costume propriamente californiano.

Il tutto attraverso l’impiego di materiali “effimeri”, semplici, oserei dire umili come la carta, il nylon o i tubolari in ferro, dimensionati e proporzionati di volta in volta secondo l’obiettivo da raggiungere, e sempre modellati nelle forme più elementari, immediate e facili da costruire”. L’equipe aveva a disposizione 10 milioni di dollari (vale a dire un cinquantesimo del budget totale, a sua volta equivalente a un ventesimo del budget dei Giochi di Mosca dell’80) da distribuire su un’area di 160 chilometri di raggio.

Il risultato è passato al vaglio di oltre due miliardi di spettatori, occasionali e no: cilindriche colonne e ampie superfici triangolari dai colori vivaci ma sempre disposti su una “tavolozza” attentamente organizzata, hanno richiamalo ironicamente il mitico clima dell’architettura greca classica, senza appesantire troppo l’occhio del profano come dell’osservatore più attento. “Infatti — sottolinea Deborah Sussman — l’intenzione e la “filosofia” a monte del nostro lavoro progettuale è stata quella di alleggerire, anche attraverso la cura dei dettagli apparentemente più banali, l’atmosfera dell’ambiente, per consentire una integrazione più spontanea tra la solennità dell’evento e il sentimento immediato ed istintivo che in queste occasioni accomuna gli individui”.

Domus 656, dicembre 1984

Durante le Olimpiadi, alla Galleria Whiteley di Los Angeles, si è tenuta una curiosa mostra che non rientrava nel programma ufficiale dei giochi. Una mostra-riflessione umoristica sugli sports (e sul clima hollywoodiano che caratterizzava questa edizione dei giochi): artisti e designers hanno progettato elementi di arredo che avevano tutti una particolarità, quella di essere realizzali con vere e proprie attrezzature o accessori sportivi. Tutti pezzi d'invenzione sono stati appositamente progetlati per questa mostra. Alla mostra hanno partecipalo Hudson Marquis, Heidi Wianecki, David Hertz, Skip Engblom, Candice Gawne, Nelsen Valentine, Steve Galerking, Lou Mannick e Darrell Strub, autore di arredi «erotici» come la «Sedia equestre» e il “Tavolo da Polo”, nelle foto.

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