La catena di eventi sismici, terremoti e conseguenti tsunami che dal marzo 2011 si abbatte sulla regione di Tōhoku rappresenta per il Giappone – pur abituato a questo genere di fenomeni – un trauma dalla di portata inedita con conseguenze disastrose come l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima. È uno scenario che come risposta ottiene una immediata mobilitazione per la ricostruzione di case e infrastrutture, ma nel quale in tanti avvertono una mancanza di attenzione a un bisogno umano più che mai forte dopo il cataclisma: quello dell’abitare con dignità e guardando avanti, con garantita la propria dimensione privata ma anche e soprattutto quella collettiva e condivisa. Un gruppo di amici, che – capita – sono anche alcuni tra i nomi più rilevanti dell’architettura contemporanea giapponese, si riunisce sotto la sigla Kisyn per rendere vera e realizzabile una visione diversa per il futuro del Giappone post-tsunami. Ci sono Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Hiroshi Naito. E c’è Riken Yamamoto, il progettista e teorico che proprio “per aver creato nella comunità la consapevolezza di quale sia la responsabilità della domanda sociale”, e aver saputo creare spazi che si relazionassero con l’uomo e portassero le persone a relazionarsi fra loro, ha vinto il Pritzker Architecture prize nel 2024. Domus cominciava nell’aprile 2012 a seguire il progetto Home-for-All col numero 867 – di cui pubblichiamo qui un estratto – per tornare a raccontarne lo sviluppo nel maggio dell’anno successivo, sul numero 969.
Riken Yamamoto e la visione per il Giappone post-tsunami, dall’archivio Domus
Dopo il terremoto e lo tsunami del 2011, il vincitore del premio Pritzker 2024 faceva squadra con altri grandi nomi dell’architettura giapponese per il progetto Home-for-All, dedicato a creare un futuro diverso nelle aree devastate.
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- Julian Worrall
- 06 marzo 2024
Un rifugio per tutti
L’acronimo Kisyn riunisce cinque celebri architetti giapponesi – Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Riken Yamamoto e Hiroshi Naito – che hanno offerto la forza della loro amicizia a servizio della ricostruzione post-tsunami. Il progetto Home-for-All propone una visione alternativa ai modelli messi in atto nel dopoguerra e a quelli eroici rappresentati dal Metabolismo, una visione nel rispetto delle persone e della natura.
È passato un anno da quando terremoto e tsunami hanno diretto la loro cupa ondata di devastazione sulla costa del Giappone settentrionale. Per una fascia di 500 chilometri, da Miyako a Minamisoma, allo sgomitare ravvicinato di centinaia di cittadine con le loro casette di legno e i negozi, con i condomini di cemento, i capannoni e i templi, tutto cucito insieme dalla ragnatela della rete elettrica, è subentrato un desolato paesaggio di fondazioni in cemento e montagne di macerie. Di “ricostruzione” (“fukko”), parola che alimenta la speranza, si vede e si sente parlare ovunque: sui giornali, nella pubblicità e nei discorsi della gente. Tuttavia, pochissime aree ne mostrano finora qualche segno tangibile. Le vittime sono state sepolte, i senzatetto ricollocati in sistemazioni temporanee, le rovine sgomberate e ammucchiate.
L’opera di re-immaginare e ricostruire realmente le comunità, però, ha preso avvio a malapena. E gli architetti stanno lavorando energicamente per assumersene il carico. Negli appalti per la ricostruzione, sono stati però bypassati: con il governo ad assegnare la parte del leone a imprese costruttrici, produttori di moduli abitativi e ingegneri civili. È un campo in cui dominano pragmatismo ed efficienza: tuttavia, la sfida costituita dal non limitarsi a ricostruire quello che è andato perduto, ma a immaginare un futuro diverso e migliore, presenta una natura tale da far ritenere agli architetti di essere le figure più qualificate per affrontarla. Ecco quindi che proprio a loro si devono la proposta e lo sviluppo di numerose iniziative: tutte affrontate partendo dalla base. I semi di tali progetti sono, spesso, poco più che singoli individui motivati dal desiderio di aiutare, ma frustrati da un senso d’impotenza. Dove comunque questi semi hanno messo radici, nel territorio delle comunità devastate, comincia oggi a nascere qualche frutto.
Il progetto Case-per-Tutti (“Minna-no-Ié” in giapponese) è uno di questi semi. Concepito inizialmente da Toyo Ito, è molto semplice: vuole offrire uno spazio comune in cui le vittime del disastro possano condividere il loro tempo, i pasti e gli incontri, rinforzando e sostenendo con ciò i legami sociali che formano il collante attraverso il quale ricomporre le loro comunità disperse. Questa semplice idea mira a porre rimedio alla mancanza di spazi collettivi ad hoc nelle strutture abitative che sono state fornite ufficialmente ai terremotati. I minuscoli alloggi degli insediamenti temporanei, moltiplicati meccanicamente – Ito li equipara a “gusci vuoti” – rappresentano un computo neutrale di quella sofferenza della quale il nucleo familiare è l’unica unità di misura rilevante, e commisurano il loro responso su tale base.
Nonostante sia ridotta in dimensioni – con una superficie interna di appena 30 m2 circa – e modesta nelle sue aspirazioni, la casa del progetto Home-for-All mira invece a fornire quel piccolo supplemento di altruismo indispensabile per la formazione di qualsiasi entità collettiva e, nell’investire questo capitale in un luogo fisico e tangibile, costituisce il cuore di una comunità rivitalizzata e il ricettacolo delle sue future aspirazioni.
Il progetto è stato proposto da Kisyn-no-kai, una compagine che raccoglie alcuni degli architetti più celebri della loro generazione (e, ciò che più conta, un insieme di amici), riunitasi poche settimane dopo il disastro. Kisyn, acronimo composto dalle iniziali dei cognomi dei partecipanti (Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Riken Yamamoto e Hiroshi Naito), è simile nel suono alla parola giapponese “kishin”, che significa all’incirca “ritorno all’essenziale”. L’informalità e la convivialità del gruppo rappresentano la sua forza. Ad affermarlo è Kengo Kuma che, come docente all’Università di Tokyo, era già stato inserito nel team ufficiale di esperti al quale sono state affidate le prime ricerche e proposte di sviluppo. “Ma ciò non era sufficiente”, sottolinea Kuma, “dato che quello era un gruppo accademico, focalizzato sulla ricerca, e non sufficientemente attivo. Noi, invece, volevamo occuparci di progetti reali, soluzioni da realizzare velocemente”. Pur nell’incertezza riguardo a come cominciare e a quale direzione prendere, Kisyn ha disseminato il suo messaggio per mezzo di conferenze, internet e contatti, ed è stato capace di catalizzare l’attenzione, ma anche di raccogliere sponsor e, punto cruciale, i partner con i quali realizzare questi interventi. Nell’estate del 2011, oltre ad aver chiesto a tutti i membri di KISYN di proporre una “casa-per-tutti”, Toyo Ito ha esteso l’invito, tramite il concorso d’idee “Picturing Home-for-All”, ad altri architetti giapponesi, a studenti di architettura, allievi delle scuole elementari, e a un’estesa lista di celebri progettisti, tra i quali Frank Gehry e Zaha Hadid. Il risultato rappresenta un’affascinante istantanea dell’immaginazione quando affronta il più semplice, il più primitivo e, tuttavia, il più profondo tra i problemi dell’architettura: la creazione di una dimora in grado di dare rifugio a una comunità.
Le diverse traiettorie di quest’immaginazione vanno dal poetico al pragmatico e, nel caso di Gehry e Hadid, costituiscono poco più che annotazioni dei loro ormai consolidati riflessi formali. Molte risposte, invece, hanno afferrato la preoccupazione di Ito: il suo richiamo a questioni come la “capanna primitiva” e lo “spazio pubblico”, e la loro unione in un singolo progetto. Le proposte hanno offerto suggerimenti e strategie per piattaforme, tetti, spazi delimitati, focolari domestici, tavoli condivisi e incontri con la natura: un vocabolario elementare di volumi e disposizioni spaziali necessarie per riunire e offrire un riparo.
Molti di questi elementi possono essere visti nelle cinque soluzioni prodotte dai Kisyn, attualmente a vari gradi di evoluzione e completamento. La proposta di Hiroshi Naito rimane tuttora da realizzare; quella di Toyo Ito è invece stata completata e occupata; i progetti di Sanaa (Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa) e Riken Yamamoto sono in corso di realizzazione; quello di Kengo Kuma, infine, rappresenta lo sviluppo di un sistema in attesa di sponsor che ne finanzino la produzione. La Home-for-All di Kuma utilizza un’idea che egli aveva già sviluppato: un sistema abitativo componibile per situazioni di emergenza, chiamato Water Branch House. È una soluzione modulare composta da contenitori in plastica impilabili, conformati in modo da poter essere uniti a incastro per creare pareti e tetti stabili. Queste taniche sono prodotte in Pet, una materia plastica riciclata a basso costo e biodegradabile, e il liquido al loro interno consente di raggiungere la necessaria massa strutturale e termica, trasformandosi all’occorrenza in una fonte di acqua potabile. Come altri lavori di Kuma, il progetto unisce aspetti tipici di una società avanzata, come materiali ad alta tecnologia e metodi di produzione seriale, con modalità di assemblaggio semplici e un senso modulare e tettonico associabile al modo tradizionale di costruire.
Il progetto di Riken Yamamoto, localizzato nella città di Kamaishi, nella prefettura di Iwate, enfatizza il ruolo del tetto-riparo quale simbolo della comunità e polo d’attrazione, sposandolo a oggetti tra i più tradizionali come l’ombrello e la lanterna. Lo schizzo originale illustrava un volume luminoso a forma di goccia, simile a una delle classiche lanterne di carta di Noguchi. Nella versione costruita, la forma è diventata geometricamente e strutturalmente regolare, con una pianta circolare coperta da un alto tetto in tessuto traslucido, disteso sopra una substruttura d’acciaio e sospeso, a guisa di ombrello, a un singolo pilastro centrale. L’intelaiatura metallica libera il pianterreno, permettendo l’uso di leggere pareti in compensato per delimitare la cucina e il bagno, con tende trasparenti di vinile a proteggere l’interno dagli elementi meteorologici.
L’idea di Sejima, realizzata come Sanaa, è situata in un insediamento temporaneo che dà sul pittoresco paesaggio di Higashi-Matsushima, nei pressi di Sendai, e lavora a sua volta col motivo della copertura come archetipo di spazio collettivo. Una ciotola metallica rovesciata, un’ellisse sostenuta da sottili pali di 60 mm di diametro, crea una struttura simile a un gazebo. S’affaccia sull’isola di Inujima, nel mare interno di Seto, dove Sejima sta lavorando a un progetto a lungo termine per trasformare un villaggio in declino in un’opera d’arte all’aperto. Sotto la copertura, un recinto rettangolare ospita un lavandino, una stufa, un tavolo e alcune sedie: il minimo di suppellettili per una vita insieme. Il tetto diventa così un cappello per il corpo del nucleo abitativo e il tavolo la sua piattaforma – abbastanza, sostiene Sejima, per “cambiare il senso dei valori e riaccendere la speranza”. La Home-for-All di Toyo Ito, a Sendai, nella prefettura di Miyagi, la prima a essere completata (Ito è riuscito ad assicurarsi per tempo l’aiuto economico di vari organismi a Kumamoto, nel Kyushu, all’estremità opposta del Paese, grazie al suo ruolo di commissario del Kumamoto Artpolis) appare la meno accattivante dal punto di vista architettonico. Un semplice edificio in legno a un solo piano con un comune tetto a spioventi, costruito da falegnami locali usando tecniche tradizionali, presenta pochi elementi che puntino a creare un effetto architettonico e a suggerire una raffinatezza spaziale.
Eppure le storie legate a questa struttura sono accompagnate da caldi sorrisi e da una tangibile gioia: Toyo Ito, infatti, narra dei suoi incontri e dei pasti consumati insieme agli occupanti come di alcuni dei momenti più felici della sua carriera. A soli cinque mesi dal suo completamento, l’abitazione, zeppa di piante e dipinti, è già molto amata. In occasione della mia visita, uno degli occupanti, Hirayama-san, mi ha raccontato alcune delle sue esperienze, parlandomi dapprima del piacere di veder costruire l’edificio; più tardi, quando evidentemente si sentiva più a suo agio, del terrore del disastro, quando le onde dello tsunami avevano raggiunto l’auto in cui scappava assieme alla famiglia scaraventandola a centinaia di metri, nel mezzo di una risaia a pochi passi da dove ci trovavamo a sedere. Era evidente come in quest’atto – raccontare la sua storia a uno sconosciuto, proveniente per di più da un altro Paese, circondato dal calore della stufa e della fragranza del legno – Hirayama stesse gradualmente liberandosi dal trauma.
Quale ricettacolo per storie come quella di Hirayama, questo modesto edificio soddisfa appieno il suo ruolo di seme di un rinato senso della comunità e, per Toyo Ito, il suo ruolo quale veicolo per far tornare l’architettura alla sua condizione originaria: quella di contenitore per il sociale. In Home-for-All ritroviamo il perenne ideale di uno spazio pubblico: qualcosa che non sia imposto dall’alto in modo autoritario, ma intessuto direttamente con i “filati” raccolti durante le conversazioni collettive con i suoi occupanti. In questo processo, l’architetto non è il pianificatore statale né l’esperto onnisciente, sul modello su cui si è fondata la ricostruzione del Giappone nel dopoguerra, e neppure il romantico sostenitore della visione eroica – l’immagine che ha alimentato le energie dei metabolisti nel periodo della grande crescita degli anni Sessanta. Nelle condizioni attuali, secondo Kazuyo Sejima, ricostruire richiede “un’attitudine rispettosa, tanto per le persone quanto per la natura”. Oggi, l’architetto della ricostruzione tesse, intreccia, e dipana i fili che uniscono le persone in gruppi, i gruppi in comunità e le comunità in paesaggi, dando loro pazientemente forma come accoglienti e rassicuranti ripari per tutti.