“Per aver creato nella comunità la consapevolezza di quale sia la responsabilità della domanda sociale, per aver messo in discussione la disciplina dell’architettura per calibrare ogni singola risposta architettonica, e soprattutto per averci ricordato che in architettura, come in democrazia, gli spazi devono essere creati dalla volontà delle persone”, la giuria del Pritzker Architecture Prize ha assegnato il più importante riconoscimento della disciplina a livello mondiale a Riken Yamamoto: attraverso cinque decenni di carriera come progettista e docente, l’architetto di Yokohama ha fatto del valore collettivo delle sue opere il pilastro di una ricerca e di una filosofia.
Nato in Cina, ma da una famiglia originaria di Yokohama, è col Giappone moderno postbellico, che si va aprendo alla dimensione globale, che Yamamoto inizia ad intrecciare la sua vicenda: dagli studi tra Nihon e Tokyo, alla formazione con il maestro Hiroshi Hara, alle diverse tappe simboliche che costruiscono il suo panorama di riflessioni (quello dei suoi esordi, ad esempio, è il Giappone dell’Expo Osaka 1970).
L’apertura del suo studio Riken Yamamoto & Field Shop Co. nel 1973 si intreccia con i viaggi che compie attraverso tutto il mondo assieme a Hara, nel Mediterraneo come nel continente americano, dove contamina i principi della sua formazione con quelli che vede applicati in diverse forme dell’abitare: è lì che consolida il senso dell’importanza dell’interazione, degli spazi che mettono in continuità privato e pubblico, interno ed esterno, quelli che pochi anni prima in Olanda Aldo Van Eyck avrebbe studiato come “realm of the in-between” e dove l’abitare avviene nella sua forma più aperta e ibrida.
La sua pratica di progetto si è così sviluppata su questo asse, accompagnata da quella dell’insegnamento universitario che poi ha portato avanti negli ultimi tre decenni, tra le università di Yokohama e Nihon, la Nagoya Zokei University of Art and Design e la Tokyo University of the Arts dove è stato Visiting Professor nel 2022.
Combinando le influenze di diversi concetti di casa, riuniti in realtà dal loro esistere in quanto relazionati con la città, Yamamoto ha saputo dar forma allo spazio, privato e pubblico, in modo che si relazionasse con l’uomo e portasse le persone a relazionarsi fra loro. La sua stessa casa – Gazebo progettata nel 1986 – è una cascata di terrazzi e volumi che si aprono a ciò che li circonda, umano o artificiale che sia.
E mettere questa posizione in relazione alla storia contemporanea del Giappone diventa costante di progetto per Yamamoto: contrastare le tendenze individualistiche nel concepire l’abitare dedicandosi all’housing collettivo in diversi progetti come l’Hotakubo del 1991; l’incoraggiare la condivisione a partire da architetture pubbliche come la Fussa City Hall di Tokyo (2010) e lo Yokosuka Museum of Art del 2006; oppure l’organizzarsi in risposte collettive dell’architettura a scenari di difficoltà come il post-tsunami del 2011, dove per il progetto Home-for-All – pubblicato da Domus nelle sue diverse fasi – si è riunito sotto la sigla Kisyn con Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Hiroshi Naito. Una vocazione al fare rete e condividere nei progetti come nella pratica una riflessione sullo spazio come patrimonio comune e vivo portata avanti anche negli anni recenti attraverso l’attività del Local Area Republic Labo e il Local Republic Award.
“Una delle cose di cui abbiamo più bisogno nel futuro delle città è creare, attraverso l'architettura, condizioni che moltiplichino le opportunità di incontro e interazione tra le persone”, ha confermato infatti Alejandro Aravena, presidente della giuria e vincitore del Pritzker nel 2016. Yamamoto per lui “è un architetto rassicurante che conferisce dignità alla vita quotidiana. La normalità diventa straordinaria. La calma porta allo splendore”.
Immagine di apertura: Riken Yamamoto, photo courtesy of Tom Welsh