Socialismo e colonnati: la svolta postmoderna francese di Ricardo Bofill, dall’archivio Domus

Nel 1986, tra timpani e capitelli prefabbricati, Domus esplorava i nuovi grandi complessi che l’architetto catalano stava realizzando alle porte di Parigi, simboli di una nuova stagione politica ed estetica.

Entro il compiersi degli anni ‘70, il linguaggio di Ricardo Bofill ha già attraversato diversi livelli di una espressività definibile come drammatica, tra i primi monolitici fronti dei terrazzi in carrer Bach a Barcellona, La Fábrica –  post-industriale residenza personale dello stesso Bofill – o le sculture policrome di Walden 7, Xanadú e della iconica Muralla Roja. Il decennio successivo racconta l’avvicinamento a un linguaggio più spstoicistaregiudicatamente monumentale e storicista, tra vetri a specchio e timpani, frontoni, colonnati, principalmente prefabbricati e in cemento: in una parola, postmoderno.

Per gli incroci della storia, questa svolta (in realtà un’evoluzione) linguistica incontra la nuova Francia socialista di Francois Mitterrand, tutta Grands Travaux e grandi piani di edilizia sociale: queste espressioni monumentali saranno monumenti di uno stato socialista? È il primo dei tanti interrogativi che Fulvio Irace affrontava nel gennaio del 1986, sul numero 668 di Domus.

Domus 668, gennaio 1986

Ricardo Bofill, Taller de arquitectura

Quando, nel febbraio del 1934, il gigantesco Karl Marx Hof – forse il più famoso di quei “monumenti proletari” all’abitazione eretti nella breve stagione della Vienna Rossa – si trasformò in fortilizio di resistenza sotto il fuoco dell’esercito governativo, esso apparve ai commentatori dell’epoca come un trasparente simbolo d’identificazione tra l’ideologia politica di una classe sociale e la forma “straordinaria” del suo alloggio. Alla vigilia delle elezioni del 1986, i nuovi monumenti all’abitare di massa commissionati dalla Francia socialista all’architetto spagnolo Ricardo Bofill, difficilmente – crediamo – potrebbero sopportare una analoga “prova del fuoco”, trasformandosi, ad esempio, in isole di resistenza della minacciata repubblica mitterandiana. E ciò a dispetto del vigore con cui il governo francese del presidente socialista ha saputo e voluto sostenere in quest’ultimo lustro una politica dell’abitazione impegnata nella ricerca di una espressiva grandeur o di una più modesta ma necessaria opera di ridisegno della massa informe delle periferie, secondo il programma “Banlieu 89”.

Bofill ha avuto l’indubbio merito di sfatare la consistenza di tanti luoghi comuni, cambiando segno agli ingredienti progettuali e spuntando le armi di prevedibili obiezioni.
Domus 668, gennaio 1986

Concepiti alla stregua di veri e propri “monumenti abitati” nella scala eroica dei “rivoluzionari” francesi del XVIII secolo, i cinque grandi complessi d’edilizia economica costruiti nella periferia parigina dal 1980 al 1985 ad opera del Taller de Arquitectura, partono, infatti, da una comune strategia di riabilitazione del concetto di “urbanità” contro le miserie dell’”urbanismo”, riproponendo in chiave di esasperazione figurativa quell’incapacità di rinuncia all’immagine che sembra caratterizzare da sempre la rivolta antimodernista del senso comune e il trionfo del comune senso del decoro. Les Arcades du Lac a St. Quentin-en-Yvelines, El Palacio de Abraxas a Marne-la-Vallée, e, ora, i recentissimi Cergy Le Puiseux a Cergy Pontoise, Les Echelles du Baroque nel XIV arrondissement di Parigi e Antigona a Montpellier sono le tappe di una escalation progettuale ben decisa a sperimentare tutte le possibili modulazioni espressive di un fantasioso programma di “sacralizzazione dell’abitazione”.

“Costruire per essere credibile”: è questo d’altra parte il realistico motto dell’architetto spagnolo che è riuscito nel giro di pochissimi anni ad organizzare una sfida tecnologicomanageriale alla deprimente realtà della “casa popolare”. Rispondendo in maniera aggressiva alla abituale rassegnazione di alcuni fatali interrogativi di maniera – “può una casa popolare non rassomigliare a una casa popolare?”; “può la tecnologia delle costruzioni non necessariamente sfociare nella abituale parodia del prodotto industriale?” – Bofill ha avuto l’indubbio merito di sfatare la consistenza di tanti luoghi comuni, cambiando segno agli ingredienti progettuali e spuntando le armi di prevedibili obiezioni.

Domus 668, gennaio 1986

“My house is my castle”: interpretando quasi alla lettera il desiderio di autoidentificazione con la dimora espresso dal noto motto inglese, Bofill si è provato a dar corpo al sogno di “grande espressione”, al bisogno di esibita eloquenza della middle class francese, desiderosa di auto promozione sociale ed avida di riconoscimenti d’immagine. Un fenomeno non nuovo, d’altra parte, se solo si riflette alla politica dell’abitazione economica promossa dalle varie municipalità d’Europa sin dagli inizi del secolo, e che tanti consistenti tracce di singolari “cittadelle” monumentali ha lasciato nei tessuti periferici delle nostre città. Contro la “freddezza tecnica” dell’architettura moderna, contro il suo ascetico puritanesimo, l’ornamento al popolo si è proposto il tema della celebrazione dell’alloggio e del risarcimento psicologico dei suoi abitatori.

Oggi, invece, nella ristrutturazione delle fasce sociali, nella ridiscussione dei ruoli produttivi e delle connotazioni culturali di vecchi e nuovi ceti della società postindustriale, il bisogno d'immagine delle classi medie ha paradossalmente trovato proprio nella forma della sua abitazione il suo primo e più formidabile ostacolo. È a quest’ininterrotta ansia di referenzialità a una versione meno banalizzata del modello residenziale (“i palazzi, non più destinati alla nobiltà, sono le case della gente, del popolo”), che Bofill sembra aver dato slancio, canalizzandone la propensione a una “ragionevole” grandiosità nella forma “neobarocca” dei suoi “ensembles” urbani.

Domus 668, gennaio 1986

“Recuperare la storia dell'architettura a partire dall’assimilazione della tecnologia esistente”: questo è stato, dalle prime pietre de Le Viaduc di St. Quentin, lo slogan-programma dello studio catalano. Economiche, prefabbricate, standardizzate... le loro costruzioni affrontano con piglio immaginativo il nodo tecnologico della questione abitativa, accettando i criteri produttivi dell'industria del le costruzioni come base di partenza per un radicale ribaltamento dei suoi abituali correlati formali.

“Città giardino in altezza”, “muraglie viventi”, “monumenti abitati”... gli assemblaggi vistosi proposti da Bofill si inseriscono tuttavia in pieno in quella tradizione tipologica dell’insediamento abitativo che, dal Falansterio all’Unité d’Habitation, ha fatto del “grande numero” la ragione sociologica della sua proposta di comunità ideale e la matrice compositiva della sua immaginazione progettuale. In tal senso, anzi, la proposta di Bofill si muove senza dubbio verso un rafforzamento e una conferma di modelli tipologici acquisiti, quali quelli, appunto, comunemente imposti dalla logica di mercato e dalle economie di scala dell’intervento pubblico. Privilegiamento, quindi, della grande dimensione e dell’alta densità, ripetibilità della cellula e standardizzazione dell’alloggio. Ciò che cambia è l’esteriorità del “guscio”, la forma del “contenitore”, concepito in termini di unitaria massa plastica che afferma sulla ripetizione cellulare delle sue componenti il marchio stilistico d’assieme e le acrobazie di una superforma ad esso imposta.

Domus 668, gennaio 1986

“Il centro di una città – ha scritto Bofill – può essere immaginato come una chiesa barocca: basta tra sformarne in alloggi lo spessore dei muri e in strade e piazze gli spazi interni”: stravolgendo dimensioni e rapporti di scala, i complessi urbanistici del Taller puntualmente si presentano come oggetti architettonici ingranditi e dilatati a scala urbana, quasi plastici sovradimensionati di monumenti e palazzi che avevamo vagamente cominciato a conoscere nelle illustrazioni dei manuali di storia urbana. Rispolverando gli ordini in “béton architectonique” e tutto il connesso repertorio di timpani, modanature, metope e modiglioni, l’architetto catalano sembra essersi così impegnato nella rischiosa avventura di rendere credibili le tesi di Sir John Summerson sulla sempiternità del “linguaggio classico dell’architettura”. 

Niente a che vedere, infatti, con l’ironia o la garbata citazione che contraddistingue gli “exploits” in stile di Stirling o Moore: il “classico” di Bofill è assunto piuttosto come una sorta di gelida e stereotipata astrazione che, se forse strappa applausi ad utenti e committenti cui fa balenare il sogno di una classicità “economica” e a portata di mano, serve all’architetto come riprova di una possibile corrispondenza tra grammatica degli ordini e geometria del grillage modulare. Bofill arriva in tal modo a formalizzare una sorta di “classicismo-tecnologico” con pannelli prefabbricati e pareti standardizzate, in cui il riferimento al passato appare non tanto un’ipotesi ideologica (e ciò a dispetto anche delle generiche affermazioni di “urbanità” dell’autore) o una nostalgia di forma, quanto un brillante escamotage di fronte a una sostanziale indifferenza a ogni vero problema di “stile” dell’abitare.

Domus 668, gennaio 1986

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