Renzo Piano e la seconda vita del Lingotto di Torino

Nel 2023 ricorre il centenario dal completamento dello stabilimento-icona Fiat, e si compie il quarto decennio della sua nuova vita, iniziata con un progetto di Piano che Domus raccontava a metà anni ‘80.

Nel 1982 cessava l’attività di uno stabilimento Fiat dal valore grandissimo per la storia aziendale: non era il principale – quello era Mirafiori – ma era stato il primo ad aver traghettato il marchio nell’era della produzione di massa e soprattutto nella modernità, con la sua struttura a telaio in calcestruzzo armato, l’organizzazione verticale della catena di produzione, la pista prove sul tetto e le rampe di distribuzione dei veicoli. Iniziato nel 1916, costruito in piena guerra e completato nel 1923, lo stabilimento ispirato dagli impianti Ford di Detroit era diventato da subito un’icona, cantata come simbolo di progresso da Le Corbusier e destinata a mantenere questo valore anche quando, dopo la chiusura, la proprietà avrebbe deciso di non disfarsene rendendola anzi “un pezzo di città”. Questo il nome di un concorso internazionale dal quale inizierà il rapporto tra la Fiat e Renzo Piano, autore del progetto che trasformerà il Lingotto in un cluster multifunzionale, epicentro di molteplici altre trasformazioni alla scala urbana che continuano ancora oggi. Nel settembre del 1986, sul numero 675, Domus presentava il progetto che si avviava verso la realizzazione.

Domus 675, settembre 1986

Renzo Piano, Progetto Lingotto, Torino

Un lungo percorso alberato, ricavato utilizzando un tracciato stradale esistente, trascina la riviera del Po nel vecchio “Lingotto” attraversandolo da parte a parte e prosegue verso ovest oltrepassando il nodo ferroviario. Nel progetto di Renzo Piano per le aree del Lingotto, della Dogana e dei Mercati Generali l’edificio della Fiat viene ricollocato al centro di un grande sistema di spazi e di attrezzature collettive che si dipana lungo quel percorso. Alla massa imponente del complesso industriale fa da contrappunto un nuovo ponte che dà origine al percorso stesso e collega le due rive del Po; mettendo in stretta relazione la grande area sportiva della riva destra con la notevole dimensione e varietà di attrezzature della riva sinistra (università, uffici pubblici, ospedali), si crea un nuovo importante baricentro. La “spina” centrale di servizi che dal centro si spinge verso sud, parallela al Po, si intreccia così con un “decumano”; esso “riorienta” l’edificio nella città, salda il tessuto dei quartieri residenziali a est con i nuovi isolati di progetto, a ovest, che riprendono la maglia ottocentesca per definire il margine della ferro-via (Futuro parco?).

Domus 675, settembre 1986

Da qui deriva anche la scelta di una sua enfatizza zione pianimetrica, accentuata dalla demolizione del “ciclopico e cavo” muro di cinta verso via Nizza, sostituito da un trasparente sistema di filari di alberature parallele all’edificio. L’insieme che ne deriva, percorso più edificio, diventa un complesso monumentale urbano: nel rapporto tra edificio e asse rettilineo, nell’intreccio con la maglia ortogonale esso riscopre una caratteristica tipica della morfologia torinese in cui sopravvive l’astrazione dei grandi tracciati barocchi collegati alla maglia dei tracciati di impianto romano e ottocentesco. Quel percorso è senza dubbio il vero “filo conduttore” del progetto: un filo sottile, fragile, teso nella città per dare un nuovo ordine allo spazio collettivo attribuendo significato oltre che a un grande manufatto, a un suo elemento modesto, semplice e anonimo: una strada, che solo con il proprio orientamento ortogonale al Lingotto, e non all’antico tracciato di via Nizza, mostra, unica tra quelle circostanti, la propria appartenenza al complesso della Fiat e si dispone, insieme a questo, al cambiamento.

Un filo sottile, dunque, che plasma anche l’intervento sull’edificio determinando la nuova gerarchia dei suoi spazi interni, per esempio la posizione della piazza ricavata in uno dei cortili esistenti. In questo senso il progetto si potrebbe davvero definire “appeso ad un filo”: su quel percorso esso gioca tutta la sua credibilità, la sua stessa ragione di essere. In questa fase, Renzo Piano rovescia il contenuto della sua prima proposta (elaborata per la consultazione Fiat) che, come molte altre, radicava il Lingotto sull’asse di via Nizza, investendolo solo marginalmente; in effetti, più che un nuovo progetto, ci sembra che egli elabori ora, per l'amministrazione comunale di Torino, un nuovo programma progettuale, ricco e intelligente, molto ambizioso anche nei suoi contenuti metodologici.

Domus 675, settembre 1986

In primo luogo esso afferma che solo facendone il fulcro di un vero e proprio sistema nella riorganizzazione di questa parte della città è possibile recuperare il potenziale architettonico e spaziale contenuto nell’edificio.

In secondo luogo esso esprime il risultato collettivo (frutto anche di altre iniziative, come per esempio il concorso Pirelli per l’area della Bicocca a Milano) di una riflessione sulla tipologia dell’edificio industriale che da contenitore diventa “condensatore sociale”; e in particolare su quali sue parti possono diventare “città”; una riflessione progettuale che, stimolata dal problema attuale della “dismissione”, scopre in un patrimonio tutt’altro che trascurabile di esperienze del Movimento Moderno, lavorando per la prima volta direttamente su quei materiali, nuove potenzialità urbane, come dimostra in questo caso la ricerca di Piano che investe anche l’interessante edificio razionalista dei Mercati Generali realizzato nel 1932 da Umberto Cuzzi, oltre la ferrovia.

In fine un programma che afferma la necessità di usare “il verde” non solo come elemento di connettivo o di meccanica riqualificazione ambientale ma come un insieme di elementi fisici precisi, piantate, filari, masse alberate, prati che riacquistano a pieno titolo il valore di elementi architettonici nella definizione dell’intero progetto urbano.

Domus 675, settembre 1986

In questa nuova realtà dell’insieme il progetto architettonico legge e separa gli elementi generatori dell’edificio di Mattè Trucco: la pista si sopraeleva appoggiata su pilotis e consente al cielo di catturarne il movimento; la quota stradale attuale sprofonda in una collina artificiale e consente alla terra di impadronirsi del corpo e di trattenerlo saldamente nelle sue viscere.

In questa lettura progettuale sembra quasi che Piano voglia esplicitamente congiungere alla celebrazione macchinista di Le Corbusier, la sofferta interpretazione di Persico, che vede nell’edificio il compiersi di “un ordine antico di obbedienza”. Tuttavia, al di là della schematica traduzione di quel programma generale di queste idee di architettura, leggibili soprattutto negli schizzi diagrammatici, ci sembra che il repertorio linguistico di Piano abbia difficoltà, in questa fase, ad esprimere in modo compiuto il passaggio dell’edificio ad un diverso “ordine urbano”: la logica che seleziona gli elementi architettonici fa ancora parte di un’altra sfera di interessi, diversa da quelli rivolti verso la città, come mostra, per esempio, la soluzione dell’ingresso principale. In questo procedimento analitico di scomposizione e soluzione delle parti, nel “non stare mai fermi” di quegli elementi “tecnologicamente perfetti” verso i quali si prova spesso una naturale diffidenza vi è forse l’insidia di una pericolosa “continuità” con il progetto originario, in cui Mattè Trucco aveva magistralmente risolto esigenze tutte interne all’intero ciclo produttivo: il rischio è che l’edificio si chiuda nuovamente su se stesso.

Progettisti:
Renzo Piano (progetto generale e coordinamento), Giuseppe De Rita e Roberto Guiducci
Collaborazione:
Building Workshop (Shunji Ishida, Ottavio Di Blasi, Klaus Dreissigacker, Enrico Erigerlo, Flavio Marano, Manuela Mattei)
Assistenza:
Giorgio G. Bianchi, Giorgio Fascioli, Marco Visconti
Cliente:
Comune di Torino 1985/1986

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