L’architettura, intesa come disciplina di progetto dello spazio di vita umano – l’arte dello spazio – vede nella definizione di una certa “atmosfera”, fatta d’aria (invisibile agli occhi), il risultato di un’alchimia da mettere in atto per sentirsi “immersi” in un ambiente accogliente e ospitale. Se di immersione spesso si parla, esiste ovviamente un altro elemento primario che, anche meglio dell’aria, permette di sperimentare nuove modalità di esplorazione di questo spazio che l’architettura sempre indaga.
L’acqua, che viene comunemente usata progettualmente solo per diletto, tra sport e gioco, è anche l’elemento che viene usato in modo più scientifico nelle esercitazioni degli astronauti per simulare l’assenza di gravità per possibili nuove missioni di vita e abitazione extraterrestre.
Per chi si occupa di architettura progettare una piscina è un esercizio straordinario di fantasia e di precisione, di spazio sempre dinamico che offre speciali condizioni di equilibrio e di sospensione.
L’acqua permette di pensare e sentire il corpo come elemento libero, sperimentando la sensazione del galleggiamento, stando immersi fino al collo o sfidando la pressione idrostatica immergendosi finché si può. L’acqua diventa così come vero e proprio materiale da costruzione, come la trasposizione dell'aria che riempie invisibilmente lo spazio che l’architetto progetta.
Inoltre fuori dall’acqua, al di sopra di essa, si può sperimentare un altro livello di sfida alla gravità, con i salti da bordi o trampolini, per tuffi in evoluzioni aereo-acquatiche. Molte architetture capolavoro del passato hanno la presenza di grandi o piccoli specchi o volumi d’acqua nei loro spazi e alcune di queste sono piscine, progetti precisi e mirati all’analisi dell’elemento liquido in un bacino da abitare fluidamente. Piscine, come luogo simbolico e empatico dove tornare forse a sentirsi anche un po’ “pesci” ancestrali, all’origine di un mondo.
Tra le tante opere pubblicate sulle pagine di Domus nel passato e custodite nell’archivio tutto consultabile e disponibile online, abbiamo selezionato 5 esempi negli anni ’50, periodo in cui albeggiava quel desiderio architettonico di fare ricerca e di applicarla ogni giorno con casi tanto straordinari nel progetto quanto ordinari nell’uso.
Tre di queste piscine indagano il tema della forma acquatica e della sua relazione con un contesto naturale, dalla più razionale alla più fantasiosa, dal quadrangolo alla curvilinea: una minuta e preziosa piscina privata per ospiti discreti e tranquilli di Franco Albini, un’altra vasca privata ma che si offre non di rado a un pubblico conviviale, festoso e danzante di Giulio Minoletti, e un impianto acquatico semipubblico che accorpa funzioni sportive e ludiche di Vittoriano Viganò.
Poi un’opera manifesto di Gio Ponti, sul tetto di un albergo davanti al golfo di Napoli, e infine uno straordinario esercizio sperimentale di audacia e sorpresa architettonica di Roberto Menghi.
Franco Albini, Domus 269 aprile 1952
Nel giardino di una abitazione privata, Franco Albini applica il suo talento razionalista e il temperamento ordinatore a un progetto poetico per la cura del corpo tramite l’esercizio fisico e acquatico.
All’interno di una precisa cornice rettangolare, che è un percorso pedonabile in ceramica bianca, circoscrive e include le varie componenti dello spazio aperto, tra aree verdi a prato e un “piazzale”, o meglio una piazzola pavimentata, per la ginnastica o per i bagni di sole. Per i bagni veri invece, si trova un bacino bordato di rosso e rivestito internamente con tessere ceramiche azzurre e verdi, composto dalla lineare vasca a tre corsie per il nuoto, divisa tramite alcuni plinti per le virate da una testata bassa per bambini, e lo spicchio a ventaglio per i tuffi il cui vertice origina nel trampolino. Il trampolino è, come spesso per Albini quando la struttura diventa essenziale, un esercizio formale esemplare: l’ossatura è fatta del solo necessario e univoca funzione ed estetica, sospendendo per aria i pioli per passi leggeri che terminano in quota con la tavola piatta e un lineare mancorrente che disegna un perimetro accogliente. È un oggetto esile e potente, leggiadro e volante, come le evoluzioni aeree in tuffo che invita e porta a fare.
Alle spalle dell’affaccio acquatico, in una parentesi alberata che chiude il lato a sud e ombreggia le attività fisiche o stanziali, c'è il contatto con una grande cabina, come un caravan accampato per l'evenienza. Il capanno che ha una pianta trapezoidale aperta verso l’ingresso e una copertura leggera a volta, è realizzato in struttura metallica, assi di legno verticali e tendaggi perimetrici liberi allo svolazzo, e funziona come soggiorno all'aperto che ospita una veranda ombreggiata con piccola cucina e servizio bar, oltre a spogliatoi e servizi igienici.
Vittoriano Viganò, Domus 261 agosto 1951
Per il Grand Hotel des Thermes di Salsomaggiore, Vittoriano Viganò progetta un impianto acquatico per la vita all'aperto, per integrare le attività di un grande albergo di villeggiatura e cura del corpo, e aprirle a frequentatori occasionali non residenti.
Cuore di questo ampio intervento è una piscina progettata come luogo di attrazione di un parco immerso nelle dolci colline emiliane. Il progetto prevede un’intera risistemazione paesaggistica con sbancamenti di terreno per la creazione di un nuovo grande anfiteatro naturale fatto con livellamenti degradanti per migliorare la visibilità delle attività che si svolgono alla base, nello specchio d’acqua.
La grande vasca poligonale unica, fatta così anche per economizzare le attività di scavo e di gestione della massa d’acqua oltre che per una precisa idea compositiva estetica, interpreta l’unificazione in un unico volume di funzioni e utenti distinti: gli sportivi, gli inesperti, i bambini e chi come loro vuole giocare con l’acqua.
Tre le pertinenze principali riconoscibili come terminali di un unico corpo interrato: da un lato la vasca per il nuoto sportivo e per le gare con corsie in linea (25 mt) e un iconico trampolino per i tuffi (con struttura a V, di Viganò?), dall’altro un’area svago con una vasca per i più piccoli o per le immersioni parziali, e un angolo per le immersioni più dinamiche e ludiche in cui si scivola da uno straordinario toboga.
Questo oggetto plastico, progettato con l’ingegnere strutturista Francesco Clerici, traccia una raffinata scultura in cemento armato in cui la serpeggiante linea dello scivolo è libera nell’aria ed è sostenuta da un unico pilastro a stelo rastremato. A completamento di questo “fatto architettonico” una esile e altrettanto leggiadra scala di risalita – insieme alla balaustra in sommità – sono staccate linguisticamente e matericamente dallo scivolo per rendere ancora più evidente la composizione plastica dell'insieme.
Tutto intorno, in quell’anfiteatro naturale dove in una rete di percorsi di attraversamento si alternano prati soleggiati e piccoli boschi ombreggianti (con anche una pista da ballo sotto le fronde), era previsto l’allestimento di capanne-spogliatoio in tela dai colori vivaci, come tende apribili e chiudibili, spostabili e aggregabili, sparse sul declivio, per dare un aspetto di “attendamento” nel verde piuttosto che di uno “stabilimento” balneare.
Giulio Minoletti, Domus 262 settembre 1951
Alla capacità inventiva di Giulio Minoletti (nome che appare secondario ma che ha realizzato veri capolavori ordinari della storia dell’architettura italiana ed è riconosciuto da veri intenditori) si deve il progetto per la nuova piscina della villa Tagliabue a Monza (residenza preesistente in stile vittoriano e oggi Sporting Club Monza), di fronte al grande Parco e a pochi metri dalla Villa Reale.
Riportata dalle cronache come richiesta stimolata dalla compagna del facoltoso imprenditore e committente – Elena Giusti, soubrette italiana celebre in quegli anni di cinema e avanspettacolo che anticipavano la televisione – la nuova piscina che sostituiva un’anonima vasca rettangolare, vide le bracciate e le immersioni di numerose dive e personaggi dello spettacolo della dolce vita degli anni ’50 e ’60. La sua caratteristica forma fluida, a papillon (nel senso della farfalla), è vista da qualcuno anche come unione di due cuori uniti per le punte, per via della committenza innamorata e amorosa che richiese l’intervento di Minoletti.
In realtà, questo nastro continuo e sinuoso, una forma conclusa ad anelli fluidi che come elastici circumnavigano e contengono un bacino amorfo, è il miglior modo per integrarsi nella natura da una parte e, dall’altra, integrare nuove attività di una vita effervescente con la austera vecchia villa preesistente.
In sintesi, la vasca ha una estensione longitudinale di circa 40 metri lineari, con due anse contrapposte, una bassa per un ingresso orizzontale, a raso, e una alta per un ingresso verticale, in tuffo. Sottacqua, altre sinuosità sono raccordate e degradano in corrispondenza di quattro curve di livello con toni cromatici dal celeste aereo al blu profondo. Il tutto contornato da un bordo di coronamento giallo e nero, e vari bacini interrati per il lavaggio dei piedi prima di un tuffo.
In tutto questo turbinio di forme paraboliche, nella migliore tradizione d’avanguardia dell’integrazione delle arti che l’architettura italiana promuoveva in quegli anni eroici, Minoletti chiama a collaborare due artisti che regalarono due “perle”, speciali presenze per i bagnanti.
Vicino al bordo vasca che si affaccia sul prato, semi emerso si trova una scultura-fontana di Lucio Fontana, un delfino in ceramica rossa smaltata d'Albisola, mentre sull’altro lato, appoggiato sul fondo ma affiorante, si trova una scultura (o come meglio la chiamava Ponti una modellazione) astratta e policroma in tessere di mosaico ceramico di Antonia Tomasini.
Intorno a questo volume che custodisce il tesoro sommerso, si concentrano diversi punti di immersione con tavole a bassa quota e un trampolino scultoreo per evoluzioni aeree più sofisticate.
Sul bordo di questo lato della piscina un muro di contenimento è in comune con un altro bacino ipogeo, vuoto e asciutto, nel quale si trova un piccolo anfiteatro naturale che ospita una pista da ballo e che affaccia nella vasca tramite 4 oblò panoramici da cui è possibile (anche di notte grazie a dei fari riflettori) osservare e seguire le evoluzioni subacquee intorno e attraverso la scultura.
Oltre che per una coinvolgente vita balneare diurna, questa straordinaria piscina è stata progettata per veri e propri spettacoli musicali e acquatici, insieme a esibizioni danzati e balli in compagnia nelle lunghe feste estive notturne.
Gio Ponti, Domus 291 febbraio 1954
Gio Ponti fece più volte “discorsi sulle piscine” e altrettante gli capitò di progettarne realizzando dei brani memorabili di una ideale teoria dell’architettura per una reale pratica dell’abitare.
Già negli anni ’30 scrisse di “terrazze e piscine sui tetti di Milano”, illustrando alcuni ‘interni aperti’ sulla sommità del suo palazzo torre Rasini in porta Venezia (con Emilio Lancia).
Dopo vari altri esercizi straordinari di piscine “a terra” come quelle immerse nella natura di Sanremo e di Sorrento, contro la piscina-rettangolo e per la piscina-lago e la piscina-giardino, si ritrovò a disegnare una nuova esperienza acquatica a Napoli, la piscina-terrazzo al decimo piano dell’edificio progettato da Fernando Chiaromonte, dove Ponti progettò tutti gli interni per l’Hotel Royal aperto nel 1955.
Nel progetto preliminare di Chiaromonte era prevista una piscina interna al sesto piano dell’edificio, ma Ponti decise di portarla in alto, all’aperto, in quel luogo speciale che è sempre un punto di contatto con il cielo, e qui occasionalmente anche con il mare di fronte.
L’edificio si trova in una straordinaria posizione panoramica sul lungomare, al centro del golfo, di fronte a Castel dell’Ovo e con una vista che spazia dal Vesuvio a Sorrento, a Capri e lungo la linea dell’orizzonte fino a Posillipo.
Ponti ragionava sempre (come i classici) sui coronamenti delle sue architetture e sull'importanza del contatto con il cielo e, per un edificio che si affaccia anche sul mare, portare l’elemento acqua in quota gli offrì un’ulteriore occasione di mediazione del contatto tra mare, terra (architettura) e cielo.
Sulla copertina di Domus 291 del febbraio 1954 vediamo il modello del progetto in costruzione, inizialmente pensato con un unico rivestimento ceramico policromatico, grafico e decorativo, per un unico invaso spaziale che parte dalle terrazze posteriori sul lato della città alta, si immerge nelle vasche centrali e riemerge sulle terrazze anteriori verso il golfo.
La realizzazione definitiva semplificò l’iniziale linguaggio decorativo ma mantenne l’impianto spaziale che, dati dei volumi e vani tecnici sulla copertura dell’edificio, tra questi vide conformarsi una specie di piccola e irregolare piazza acquatica con due bacini collegati da un punto cerniera, cinta da muri attrezzati e fatta di solarium, percorsi e passaggi tra bordi abitabili sotto il sole.
La forma risultante, poligonale e libera, è dotta e condotta verso un luogo non sportivo ma di puro comfort (Ponti parlava di conforto) climatico e ristoratore necessario per la funzione alberghiera balneare ma cittadina.
Roberto Menghi, Domus 318 maggio 1956
Vincitrice del concorso per il premio Vis Securit-Domus, organizzato dalla rivista per promuovere l’impiego estensivo, espressivo e tecnico del vetro nell’architettura moderna, questa incredibile piscina pensile in cristallo e cemento armato, venne realizzata da Roberto Menghi per l’Ente Fiera di Milano nel 1956.
All’interno della Fiera Campionaria, l’azienda produttrice di lastre di vetro Securit, mise in opera il meglio della sua produzione per questa “prova di forza” tra tecnica ed estetica, e per mettere in mostra, portando al limite, il potenziale del vetro di sicurezza, estremamente resistente e particolarmente trasparente.
Come in un edificio di due piani fuori terra, una vera e propria architettura abitata dall’acqua e dai corpi che all’interno si inabissano, questo “acquario umano” serviva per mettere in scena prove subacquee e per la visione integrale delle evoluzioni in immersione.
La struttura reticolare di cemento armato (calcolata insieme all’ingegnere Egone Cegnar) si erge a ponte, sopra un bacino d’acqua orizzontale alla base dal quale spuntano esili pilastri rastremati. Questo intreccio ordinato ingabbia un portentoso volume d'acqua (più di 100 mc per circa 100.000 kg) lasciando tutte le forometrie delle pareti e del fondo trasparenti, tamponate con lastre di cristallo di sicurezza accoppiate con interposto foglio di plastica trasparente.
A contorno di questa ossatura portante e portentosa, una esile struttura tubolare si arrampica su un lato dell’edificio, portando con sé una scala di accesso e di ascesa a un pontile trasversale sulla sommità della struttura dal quale poi si discende e ci si immerge per tutte le attività da mostrare al grande pubblico.
Collaborazione alla ricerca di Annalisa Ubaldi