L’ultima nomina è stata quella di Bushra Afreen, nuova Chief Heat Officer (CHO) per la città di Dhaka, in Bangladesh. La prima, nel 2021, quella di Jane Gilbert, chiamata a coordinare le politiche urbane per rispondere alle sfide climatiche, dall’innalzamento del livello del mare ai fenomeni meteorologici estremi, che affliggono il presente e il futuro di Miami. Le altre CHO, tutte donne, si contano al momento sulle dita di una mano: Eugenia Kargbo, a Freetown, in Sierra Leone Elissavet Bargianni, a Atene, insieme a Tiffany Crawford e Krista Milne, tandem designato per la città di Melbourne.
La figura del Chief Heat Officer è stata inizialmente elaborata e formalizzata dal think tank americano Adrienne Arsht-Rockefeller Foundation Resilience Center, anche noto come Arsht-Rock, il primo a mettere a fuoco la necessità di disporre di un catalizzatore istituzionale cittadino per ripensare le strategie di adattamento dell’urbanistica alla luce del cambiamento climatico. Una visione sostenuta successivamente anche dalle Nazioni Unite, che dal 2022 contano un Global Cho per monitorare gli sforzi complessivi delle differenti città e promuovere la promozione di buone pratiche. La carica è oggi ricoperta da Eleni Myrivili, già “assessore al caldo” di Atene.
Tra i compiti dei CHO, l’azione di coordinamento e pianificazione rimane centrale e si focalizza in particolar modo sulle strategie di riduzione delle ondate di calore, con un’attenzione particolare per le aree più vulnerabili. A questa si affianca l’informazione alla cittadinanza: secondo i dati dell’Arsht-Rock, il 25% delle città mondiali andrà incontro ad un aumento delle temperature di 7° di qui al 2100. Una ragione impellente per accelerare la presa di coscienza collettiva, in particolar modo tra quegli strati della popolazione che, in virtù della loro zona di residenza, si rivelano maggiormente esposti.
Immagine di apertura: Dhaka via Unsplash, courtesy Shafiqul Islam