Che fine faranno le vie dello shopping?

Con la crescita esponenziale delle vendite online, sempre più colossi del fast fashion stanno cedendo il passo all’e-commerce. Oltre al futuro degli enormi spazi lasciati sfitti, sarà tutto il rituale dello shopping che andrà ripensato: a partire dal Regno Unito, ma in tutto il pianeta.

Quando nel 1986 la commedia Grandi Magazzini sbarca nelle sale cinematografiche italiane, il successo di pubblico della pellicola cattura un’Italia ruggente che guarda all’America reaganiana ed all’Inghilterra di Margaret Thatcher. Le ambizioni della Milano da bere passano anche per un nuovo modo di fare shopping, quello del centro commerciale. Quasi come se l’ottimismo yuppie avesse riportato in auge il concetto di grande magazzino nato durante la Belle Époque, l’Italia si lancia alla scoperta dei centri commerciali con un certo ritardo rispetto al resto d’Europa, dove sono una realtà consolidata. A quel punto, nel Regno Unito il centro commerciale è infatti già lo spazio attorno a cui ruota la vita sociale.   Qui le arcades, le vecchie gallerie ottocentesche – anziché progressivamente svuotarsi o parzialmente conservarsi come nostalgici salotti in naftalina, con i loro caffè dalle sedute in velluto rosso e dai tavolini stuccati in foglia d’oro – sono mutate in spazi commerciali multi-brand che si ripetono in maniera seriale sull’intera isola. Quasi piccole cittadelle che ricordano gli outlet extra urbani italiani, le aree commerciali inglesi assumono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’estetica e delle dinamiche socioculturali britanniche. Questi spazi, a loro volta, si innestano nelle cosiddette high street, le strade nevralgiche della vita cittadina anglosassone. Un tempo casa di negozi indipendenti – dal droghiere al sarto – diventano sinonimo di shopping low-cost e più recentemente di fast fashion.   Un intero universo, quello dello shopping, con i suoi rituali laici e i relativi stereotipi che si prospetta cambieranno radicalmente nel post-Covid, in Regno Unito come nel resto dell’occidente. Almeno questi sono i segnali lanciati nelle ultime due settimane in seguito all’acquisizione da parte dei colossi dello shopping online Asos e Boohoo rispettivamente di Topshop e Debenhams, due catene storiche dell’industria della moda low-cost inglese.  

Molte sono le saracinesche rimaste abbassate in seguito all'emergenza Covid. Foto: Colin Moody.

Le vendite sorridono all’e-commerce

Con una perdita di posti di lavoro stimata oltre le 4,.000 unità e la chiusura di tutti i punti vendita dei due brand nel Regno Unito, Europa e Asia, la nuova realtà delle high street britanniche ed europee segue lo spettro delineato nella primavera scorsa da Zara che aveva annunciato un ridimensionamento sia dei negozi (1.,200) sia dello staff, in favore dell’online. Il calo del fatturato del 44% annunciato nell’aprile scorso dal brand spagnolo si pone inevitabilmente in controtendenza con l’aumento superiore al 50% registrato negli stessi mesi da Boohoo ed Asos e proseguito anche ad inizio 2021.  Addirittura, Boohoo si permette di fare da garante del mercato dicendosi, tramite il suo direttore finanziario Neil Catto, pronto a salvaguardare altri brand in difficoltà. Con marchi quali Oasis e Warehouse già nel mirino del colosso della moda online, l’amministrazione controllata è ormai di casa nelle high street inglesi e, presto, potrebbero esserlo nel resto di Europa, Nord America ed Asia. Si pensi che nella sola Ipswich, Midlands, il 14% delle vetrine risulta oggi vuoto in seguito alla capitolazione di Aracdia, uno dei principali gruppi di fast fashion del Regno Unito. Del resto nel vecchio continente le vendite di abbigliamento nei negozi sono diminuite nel 2020 del 50,5% rispetto all’anno precedente, negli States addirittura del 62,4%. Statistiche che, inevitabilmente, si accompagnano a una vertiginosa crescita delle vendite online, dove in Europa è il colosso tedesco Zalando a spuntarla con 3 milioni di nuovi utenti registrati nell’estate dell’anno scorso e un aumento di vendite pari al 34%, con ulteriori prospettive di crescita del 25% nel 2021. Trend simile a quello degli USA dove, salvo la temporanea chiusura dei centri di raccolta dei beni di consumo indetta nell’estate 2020 per fronteggiare l’emergenza Covid, i retailer di abbigliamento online stanno veleggiando sullo shopping fisico. Analogamente Christoph Barchewitz, CEO di Online Fashion Group – player emergente della moda online asiatica con sede a Singapore – si è detto ottimista riguardo il potenziale di crescita della moda online per il Sud Est Asiatico e il Sud America.

Non si vive di soli skinnies

Il Covid ha in realtà solo accelerato un processo che sembrava da tempo destinato a diventare realtà. Il governo inglese durante lo scorso anno aveva già provveduto a stanziare un fondo di 95 milioni di sterline destinato a rigenerare più di 60 high street attraverso il consorzio Historic England. Mossa necessaria per riparare al brutto spettacolo offerto da centri cittadini ormai ridotti a un susseguirsi di outlet, centri scommesse e negozi sfitti; scenario che sta diventando familiare a molte altre nazioni.  Non meno trascurabili le colpe in seno ai brand in questione. Mutazioni nella demografica della clientela e incapacità di anticipare i trend hanno messo in ginocchio due colossi dell’abbigliamento britannico: il department store Debenhams e Topshop. Pioniere dell’e-commerce inglese negli anni ‘90 e partner della London Fashion Week tra gli ‘00 ed i ‘10, Topshop – ed il suo corrispettivo di menswear Topman – nel giro di meno di 20 anni è passato da essere un brand il cui solo flagship store londinese era quotato intorno ai 400 milioni di sterline, a marchio costretto alla vendita a poco più di 300 milioni per evitare la bancarotta.  

Le strade dello shopping inglesi sono rimaste deserte in seguito ai molteplici lockdown. Nella foto un dettaglio di East Street, Bristol. Foto: Colin Moody.

La moda liquida dell’influencing marketing

Lo shopping online ha messo in luce come nella società liquida geografia ed estetica non sono più indissolubilmente legate come in passato, complice la perdita di appeal dell’estetica ‘brit’, come già successo con cultura indie e i suoi jeans skinny, di cui Topshop era alfiere indiscusso assieme ai già scomparsi American Apparel e Cheap Monday. D’altronde, oggi senza viaggiare tutti possono appropriarsi di look esteri, conformandosi al nuovo zeitgeist globale virtuale. E con l’influencing marketing che orienta il mercato, non è un caso se oggi il leader delle high street virtuali sia Asos, brand nato nel 2000 con lo scopo di creare imitazioni a buon mercato dei capi iconici indossati dai personaggi del grande schermo. Il nome del marchio inglese, infatti, sta per ‘As Seen On Screen’, e uno dei suoi primi pezzi iconici fu la riproduzione della giacca in pelle rossa indossata da Brad Pitt in Fight Club. E lo stesso fa Boohoo, altro colosso della moda online, che fonda il suo successo su prezzi ultra-competitivi e su un mercato di massa che insegue l’estetica delle star dei social, senza prestare troppa attenzione né ai fattori etici né a quelli qualitativi. I clienti sembrano non essere stati turbati dagli scandali piovuti sul brand di Mahmud Kamani riguardo le condizioni lavorative e sindacali disumane del suo principale centro produttivo a Leicester, dove i lavoratori hanno continuato a lavorare nei mesi passati, trasformando la città in uno dei principali focolai Covid dell’Inghilterra.

Solo alcuni negozi sono rimasti aperti durante il lockdown, fungendo così da punti di riferimento per le comunità locali. Foto: Colin Moody.

I pop-up salveranno i negozi

L’alta moda potrebbe, forse, prendersi cura di questi spazi. La vocazione all’inclusività del mercato del lusso da un lato, l’ambizione – già denunciata da Pasolini – del popolo nell’inseguire lo stile di vita delle classi abbienti dall’altra, ha contribuito a creare quello che Toby Shorin definisce ‘capitalismo barocco’, ovvero un lusso manierista usato per manifestare agli occhi altrui il benessere del consumatore agiato. Capitalismo barocco figlio di quella liquidità sociale del consumo che la rateizzazione dei pagamenti tramite Klarna ha cementato come nuova normalità. Il rischio, però, è quello di trasformare luoghi di aggregazione un tempo popolari in ambienti esclusivi, andando ad aumentare la forbice sociale nella già polarizzata società britannica e non solo britannica. Anche nel caso del luxury fashion, il mercato sembrerebbe suggellare il successo di portali online multi-brand del lusso, come Yoox (gruppo Net-a-Porter) o il francese Vestiaire Collective, che a soli tre mesi dall’inizio della pandemia registrava una crescita di vendite online del 119% rispetto all’anno precedente. 
Se i pochi brand che potrebbero concedersi il raro lusso di rilevare tutti i negozi chiusi dalle catene assorbite sono infatti i primi a tenersene alla larga, facendo virtù della loro dedizione all’e-commerce, il futuro sembra prospettare una colonizzazione delle aree sinora dedicate a una clientela ‘mainstream’ da parte di brand minori ed indipendenti. Questi, al contrario dei colossi di cui sopra, hanno potuto sfruttare la democraticità dei social per mettersi in mostra, secondo la cosiddetta ‘kindness economy’. Questa è la previsione di Mary Portas, tra le più affermate consulenti di commercio al dettaglio inglesi, che ha additato il declino delle catene da high street nella loro incapacità di interpretare i nuovi valori dei consumatori più giovani, attenti soprattutto al consumo etico ed allo shopping inteso come esperienza e comunità. Se Portas sostiene che nessuno proverà nostalgia per le catene capitolate, Mark Pilkington – altro esperto di retail – ha recentemente invitato i proprietari degli immobili a “offrire spazi che i clienti possono prendere e trasformare nell’aspetto in base alla tecnologia,” usandoli soprattutto come vetrine per inventari online e spazi capaci di interagire con i clienti “secondo dinamiche di cui essi non possono fare esperienza tramite i loro schermi”. I negozi del futuro dovranno dunque essere spazi ibridi fondati su un modello “plug and play”, un giorno pop-up di brand d’abbigliamento, un giorno centro yoga. Affitti su base mensile e stock ridotto all’osso in favore di una esperienza di shopping più concettuale che fisica. Una suggestione che potrebbe suggerire l’uso di ex centri commerciali come spazi per eventi culturali quali concerti, mostre e workshop, sfruttando la potenzialità offerta dalle loro superfici estese di rispettare le norme Covid. Modello basato su quello già efficacemente testato dall’industria gastronomica, quello dei pop-up senza dubbio stimolerebbe il consumatore contemporaneo, sempre più affamato di stimoli nuovi e costanti, a uscire di casa. Considerato come, almeno in Regno Unito, è possibile convertire negozi in appartamenti senza bisogno di permesso alcuno, è inoltre possibile prevedere una progressiva integrazione dell’edilizia privata nelle aree commerciali. Un destino che potrebbe anche estendersi ai palazzi uffici che si troveranno progressivamente sfitti in seguito al previsto incremento dello smart working. 

L'abbandono sta prendendo il sopravvento in molte vie dello shopping. Foto: Colin Moody.

Il futuro passa dalla salvaguardia di rituali sociali

Questo processo, pur confermando le mutate dinamiche della socializzazione, rischia soprattutto di scalfire per sempre l’importanza di certi fenomeni di aggregazione cross-generazionale che per i teenager hanno rappresentato importanti percorsi di maturazione e creatività. Mentre le high street gridano il loro bisogno di rinnovamento, bisogna altresì stare attenti che le mutazioni future non comportino una trasformazione in enormi centri di click and collect a cielo aperto, cavalcando l’alienazione legittimata dai ripetuti lockdown.   I centri commerciali rischiano di diventare decadenti ed attempati attori degli scenari urbani al pari del personaggio magistralmente interpretato da Nino Manfredi in Grandi Magazzini. Rigenerare le high street significa investire su un consumo più etico – con la relativa sfida di far fronte ad una clientela bulimica di mode temporanee – e soprattutto salvaguardare, al fianco di edifici storici, rituali sociali. 

  • Colin Moody
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