In principio fu probabilmente Vivian Maier. Dopo il suo caso, ormai celebre, appassionati, studiosi e soprattutto editori sono andati sempre più spesso alla ricerca delle nuove declinazioni di questa storia di successo o hanno comunque cominciato a rispolverare archivi più o meno facilmente raggiungibili. Una moda? Sicuramente una forte tendenza, non nuova ma di certo in crescita negli ultimi anni. Non è tanto il recupero del vernacolare o la rimessa in circolo di quell’incontrollabile calderone visuale rappresentato da internet, non parliamo degli alfieri della fotografia senza macchina fotografica come Joachim Schmidt, Erik Kessels o Thomas Mailander, ma nemmeno dei teorici dell’iconosfera come Joan Fontcuberta. E, paradossalmente, non si tratta nemmeno — o non solo — di una più comprensibile operazione commerciale ma — anche — di qualcosa di più sottile e profondo, forse legata proprio all’incontrollabile fluidità che attraversa ormai qualsiasi campo della produzione culturale di matrice iconografica. I casi più emblematici sono probabilmente la riedizione del leggendario Bilderatlas Mnemonsine di Aby Warburg, in sostanza un antenato analogico di un motore di ricerca per immagini, e Day Sleepers, dove l’artista Sam Contis ha ricontestualizzato alcune tra le immagini meno note di Dorothea Lange in un’inedita narrativa priva di date e didascalie, proponendo così una nuova e più contemporanea lettura di un classico della fotografia. Ma altri esempi — ne abbiamo selezionato cinque nella foto gallery, tutti in declinazione americana — inducono a sospettare quanto un passato in parte consolatorio e in parte provocatorio possa offrire oggi rifugio da quella “furia delle immagini” (per tornare a Fontcuberta) che è alla fine specchio di un presente inquieto e inafferrabile.
Un viaggio negli archivi fotografici americani in cinque libri
Abbiamo selezionato cinque recentissime pubblicazioni tratte da archivi fotografici, che rappresentano sempre più un’inestimabile fonte iconografica per l’editoria contemporanea.
View Article details
- Raffaele Vertaldi
- 06 dicembre 2021
La data di realizzazione e gli autori delle numerose fotografie contenute nel piccolo ma sostanzioso A Field Measure Survey of American Architecture è dichiarata fin dalla copertina, a scanso di equivoci: non il risultato di un unico per quanto complesso viaggio attraverso gli Stati Uniti, ma un accurato lavoro di selezione e compilazione operato attraverso il tempo racchiuso negli archivi dell’Historic American Buildings Survey presso la US Library of Congress. Malgrado la notevole omogeneità formale faccia infatti pensare a una serialità tipologica a forte componente autoriale, le foto non sono state scattate nemmeno dalla stessa persona, men che meno dall’autore del libro (fotografo a sua volta e editore molto conosciuto per i suoi saggi). Stiamo per addentrarci cioè nella mappa sentimentale di un’architettura priva di grandi firme, che si muove tra il codificato e il vernacolare, che taglia il Paese attraversandone le contraddizioni, a partire da quelle rese evidenti dalle facciate degli edifici—abbandonati, ambigui, affascinanti—per arrivare spesso a quelle rivelate da altri inaspettati punti di vista, e senza tralasciare quelle nascoste negli interni.
Nel 1886, all’età di tre anni, Lora Webb Nichols si trasferisce con i genitori nel piccolo centro minerario di Encampment, in Wyoming. A 13 anni inizia a tenere un diario, e a 16 a fotografare. Due attività che porterà avanti fino alla morte, nel 1962, e che ci permettono oggi di avere un’idea più che precisa di come dovesse essere la vita in un’isolata comunità rurale all’inizio del XX secolo e negli anni della Depressione. Innamoratasi non solo dei materiali originali conservati grazie all’entusiasmo di Nancy Anderson, amica di famiglia della Nichols, ma anche della sfida tecnologica e legale necessaria a recuperarli e a preservarli, l’artista Nicole Jane Hill s’inventa archivista e, nuovo anello di una storia tutta femminile, prova a fare finalmente ordine tra le 24.000 immagini della collezione. Lontano dal fascino metropolitano di una Vivian Maier, lo stile di Webb Nichols—che a Encampment gestì poi uno studio fotografico—è diretto e divertito, affettuoso eppure antropologicamente impeccabile, e ci fornisce un accesso privilegiato e intuitivo a una miniera di informazioni e suggestioni ancora tutte da interpretare.
I Wish I Never Saw the Sunshine rappresenta in qualche modo la summa—ma solo una delle tante possibili—del lavoro concettuale dell’artista visivo Pacifico Silano. Da sempre interessato al patrimonio tangibile che risiede da un lato nell’arte stampata e dall’altro negli archivi, fin dalle sue prime opere Silano ha lavorato sulla riscoperta, il recupero, la riduzione, la riformulazione e la ricontestualizzazione di materiali presento in archivi pubblici o privati—compreso il suo—legati alla cultura queer. Che si tratti di materiali raccolti dalla Richard Marshall Collection of Gay Pornography o rifotografati da magazine erotici come Blueboy, Honcho, o Drummer, la sensazione di malinconia e tenerezza, rafforzata da una biografia familiare interessata dallo stigma dell’AIDS, e il tentativo di smontare da dentro le logiche iconografiche del desiderio omosessuale, permangono lungo tutto l’arco creativo dell’artista di Brooklyn, che attraverso tagli e sovrapposizioni da vita a grandi installazioni simili a delicati memoriali, dove l’oggetto principale della ricerca è, benché evidente, più spesso evocato che apertamente dichiarato.
Anche se oggi spesso complicata dalle istanze a volte lunari del politically correct e della cancel culture, quella per i diritti umani è incontestabilmente una delle più importanti lotte che è ancora necessario portare avanti, no matter what. Del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70 Doris Derby è stata non una semplice testimone ma anche un’attivista sempre in prima linea. Il suo archivio, che ne narra nascita, sviluppi, vittorie e delusioni, ha la doppia forza di un documento privato e pubblico dove, come in ogni racconto ben fatto, le storie intime e quotidiane di figure importati ma dimenticate s’intrecciano con quelle di grandi protagonisti come Muhammad Ali, Alice Walker, Fannie Lou Hamer e Jesse Jackson, e in cui eventi capitali come la sparatoria alla Jackson State Univerity, i funerali di Martin Luther King o la convention democratica del 1968 dialogano con accadimenti minori ma non per questo banali come la vita degli afroamericani nel delta del Mississippi. Un’inestimabile documentazione di prima mano, una testimonianza ancora freschissima che vive di un entusiasmo davvero coinvolgente.
Chi è Bernard Taylor? È la domanda che si è posto nello scoprirne e acquistarne l’archivio il regista Peter Ward, che col misterioso personaggio sembra condividere solo i natali. Elusivo e ritirato, prima della sua scomparsa Taylor aveva passato la vita a collezionare i materiali più diversi (mappe catastali, fotografie di paesaggio, cartoline d’epoca) sul piccolo villaggio di Hastings–on–Hudson, nello stato di New York, con l’intenzione di riunirli in un libro poi autopubblicato solo in pochissime copie destinate a parenti e amici, e di cui ora vede finalmente la luce una seconda edizione. In cosa differisce questo nuovo catalogo dall’idea originale? E fino a che punto possono spingersi Ward e l’editore nell’interpretare e attribuire gli eclettici testi e in sostanza decifrare l’ellittica narrazione su cui era imperniata l’opera? Con questo delizioso volume, l’esperto di libri rari Tom Lecky (anche lui di Hastings–on–Hudson, guarda caso) ci regala una riflessione leggera e divertita, ma non per questo poco seria, sull’emozione della scoperta e l’arte della conoscenza, ma anche su autorialità e autoironia: un viaggio intriso di malinconia in cui si sorride a ogni pagina, e dove ogni dettaglio rappresenta un passo in più per risolvere il caso Bernad Taylor.