Trasferitasi a Praga sul finire degli anni ’10 per studiare Future Design, Alessandra Vuillermin non trova nella città di Kafka grandi stimoli. Non ha amici lì e farsene di nuovi le sembra più difficile che a Milano, da dove arriva; in generale, non ci sono grandi cose da fare. E il clima è crudele – “un freddo boia”, lo definisce lei. Così, si chiude in casa. Con una missione precisa. Ha visto il render di una ragazza che sembra una foto. E Vuillermin, che è cresciuta a suon di videogiochi, provando la prima epifania della sua giovane vita di fronte a Final Fantasy e ai suoi personaggi – “erano così realistici, ma facevano cose pazzesche”, spiega – decide che vuole provare a farlo anche lei. Così si mette a studiare. Su Instagram, soprattutto: sceglie le cose che le piacciono, guarda nelle dida il nome dei programmi più usati, segue dei Q&A. Fa il suo primo render e lo pubblica. Al tempo aveva 500 followers. Incassa un numero di like uguale se non superiore. Quel giorno, in qualche modo, era nata la sua replica digitale, Hardmetacore.
“Forse questa roba è la mia, ho pensato”, ricorda lei. Ci incontriamo nel centro di Milano, sotto la torre Velasca in restauro impacchettata in un trompe l’oeil che la rappresenta nel dettaglio. Solo più tardi, quando ci salutiamo a qualche centinaio di metri di distanza, dopo una chiacchierata fittissima di almeno 3 ore, realizzo che forse il grattacielo di BBPR, avvolto nella sua replica, era per assurdo il luogo più sensato dove dare appuntamento a Vuillermin/Harmetacore. Perché la sua arte è fondamentalmente basata sulla replica digitale di sé stessa e la sua propagazione. Anche quel primo render era un autoritratto. Come tutto quello che sarebbe venuto poi.
Al centro di Hardmetacore c’è lei, Alessandra Vuillermin. “Io sono un personaggio particolare”, ammette lei stessa. Ha un viso d’angelo e denti da vampiro; capelli nerissimi rasati ai lati e niente sopracciglia. Un occhio è leggermente più pigro, ma in maniera impercettibile. Sulle nocche, le rune di Alucard, il personaggio dell’anime – sempre a tema vampiresco – Hellsing Ultimate. Definisce Marilyn Manson un suo riferimento, è stato l’ispirazione della sua tesi di laurea. “Oggi vai da Gucci e c’è gente come me”, dice nel suo italiano preciso e serissimo, che alle volte incorpora qualche slang milanese o dei lemmi da videogiocatrice incallita o del mondo digitale (tipo change, merge, o glitch). “Ma io sono così da quando ho sedici anni e andavo in Vetra (ritrovo per eccellenza di punk, goth e controculture a Milano, NdR)”, spiega sorridendo.
Le ragazzine demoniache che popolano @hardmetacore sono il riflesso di Alessandra Vuillermin – psichedelico, coloratissimo, digitalissimo. Di base, tutto il suo lavoro deriva da un modello comprato su una piattaforma, esportato da lì, adattato alle sue fattezze, e poi replicato in un campionario. Un esercito di cloni, come gli stormtrooper di Guerre Stellari, ma digitali. Cambiano le texture, che Vuillermin realizza sempre a mano – molti si affidano a preset –, cambiano le proporzioni. Ma tutti i personaggi arrivano dallo stesso laboratorio, per poi vestire panni diversi, proprio come i replicanti di Westworld. “Tutti fanno parte della stessa famiglia”. Chiunque le commissioni qualcosa, avrà un pezzo di lei. “Magari con le sopracciglia”, ride. Perché no: in fondo, come mi spiega, “siamo tutti uguali, ma tutti diversi”.
“Io sono un’artista”. Così si definisce Alessandra Vuillermin, più che una designer. Il suo lavoro non passa inosservato e solitamente piace “o fa ca*are”, come dice esplicitamente lei. Sventola con orgoglio la schermata sul cellulare con la registrazione di Hardmetacore Ltd tra le companies britanniche. Mi dice che per lei “il cliente ha sempre ragione”, che odia i rapporti troppo amichevoli sul lavoro, e crede che la buona pubblicità, in quel che fa, sia tutto. “Cerco di essere gentile ed educata con chiunque”. Una roccaforte di professionalità che si erge a proteggere la Mina Harker che abita nel cuore del castello.
Prima di Praga, c’era Londra, ma soprattutto tanta zona grigia. All’epoca Vuillermin era appena uscita dalla Naba, dove aveva studiato grafica e art direction. L’idea era soprattutto quella di lanciarsi nel mondo delle zine. Ma era giusto quello, un’idea. “La mia roba funzionava, ma era chiaro che avevo un gap”, dice lei, sottolineando che all’epoca non aveva maturità dal punto di vista visuale. “Mi sono detta, questa roba non mi campa (sic, NdR)”. E sempre prima di Praga c’è stata l’esperienza presso un’azienda di moda, la sensazione di essere pagata troppo poco per quel che valeva il suo lavoro, “e il problema di avere per capo un uomo con il doppio dei miei anni che un po’ mi trattava male, un po’ ci provava”. Un grande classico, italiano ma non solo. Che in modo diverso continua ancora oggi: “Essere una donna in questo mondo dà fastidio”, spiega l’artista, riferendosi alla sfera di chi lavora nel digitale, all’esercito degli youtubers, dei twitchers, a chi gravita intorno al mondo del gaming. Del nerdume aggiornato agli anni di TikTok, insomma. Mi racconta qualche aneddoto e il fatto che fino a poco tempo fa non mostrava la sua faccia. Tanto che davano tutti per scontato che fosse un uomo. “Su Instagram mi scrivevano ‘sei bravissimo bro’”, confessa ridacchiando.
A Praga, Alessandra Vuillermin si era data l’obbiettivo di imparare nel giro di un anno l’arte del 3D – “vado sempre a goal, nella mia vita: in quel momento era quello”, spiega lei. E dopo una dozzina di mesi comincia a fare cose che la soddisfano. Torna a Milano, entra in un collettivo di artisti digitali su Discord, da cui poi è uscita perché diventato “un contesto tossico”. Era la numero 101, oggi ci sono almeno 3000 iscritti. Segno che la scena è esplosa. Cominciano a contattarla brand, via Instagram, per proporle dei lavori. Soprattutto moda – The Attico, Casio, Adriana Hotcouture e un progetto per Gucci con Cormio. Ma ci sono anche case discografiche e privati, magari cantanti che vogliono il loro avatar digitale. Hardmetacore diventa un piccolo fenomeno. Conquista la cover digitale di Vogue Talent.
È tra i 6 artisti scelti da Dr. Martens per un progetto con affissioni in tutta Milano. “Un brand con cui mi sono trovata benissimo, perché si prendono cura del designer”: per loro Vuillermin ha realizzato un’opera “rosa e nera come me”, spiega lei, con lo stivaletto adagiato in un paesaggio di fughi e bolle, con arrampicate sopra tre figure femminili – all’inizio nude, ma sapeva che le avrebbero chiesto di vestirle. “Ho voluto provarci”. Sullo sfondo, il biscione. Ci ha lavorato per un mese e mezzo. All’evento di presentazione, è avvenuto il ricongiungimento: Alessandra Vuillermin si presenta in pubblico come Hardmetacore, ci sono anche le foto di lei all’evento sul suo Instagram. Da quel punto in poi, sono ufficialmente la stessa persona.
È Hub, l’agenzia PR di Dr. Martens, a metterci in contatto. Dopo una prima schermaglia di battute scambiate via email, incontro Alessandra Vuillermin di persona in un martedì pomeriggio grigio di ottobre. All’ombra della torre Velasca, come già detto. Nel presentarci, cozziamo i pugni con leggerezza. Ha la tote bag del progetto Dr. Martens alla spalla. Mi ha chiesto di ritardare l’appuntamento di mezzora, scusandosi più volte: “Il lavoro è lavoro, non è serio arrivare in ritardo”. Il motivo del ritardo è un pugno nello stomaco e me lo spiega quando ci vediamo: arriva direttamente dal funerale di un ex fidanzato, morto sul colpo in un incidente in moto. Aveva 26 anni. “Non ci sentivamo più spesso, ma ci volevamo bene”, mi racconta. Su Instagram gli ha dedicato un artwork con una bara digitale sospesa in un campo di fiori viola, che si riempie di fiori anch’essi viola, con in sottofondo Everybody Dies di Billie Eilish, che attacca cantando: “Everybody dies, surprise, surprise”. Sul fianco della bara c’è scritto “With love, Metacore”. Si vede bene solo nella terza e ultima immagine. È straziante.
Vaghiamo per le vie del centro, come in una bolla sospesa dal tempo, Vuillermin finisce a parlare della vita e della morte come farebbero in un qualsiasi pomeriggio crepuscolare due persone che si conoscono da sempre. Delle oscurità, delle insicurezze, della lotta per l’equilibrio mentale. Del presente, del suo attuale ragazzo che vuole sposare. Del suo passato: “Ho dei genitori splendidi, ma nella vita succedono cose”, dice a un certo punto. Come un vampiro, sembra avere vissuto mille vite, nonostante abbia solo 25 anni. Vuillermin mi racconta dei tatuaggi esoterici che ha sul braccio – “ma io non credo in niente”, precisa – e dell’infanzia passata con le tate – “i miei erano molto impegnati”. Del libro che le hanno regalato da bambina sul vampirino di Bomarzo. Del padre che l’ha introdotta ad Akira, al cyberpunk. E ai videogiochi. “Io con il computer ci vivo insieme, ci vado a letto”, dice lei, e la sua vita sembra davvero tutta sul crinale tra digitale e mondo fisico, tra la simulazione e la realtà, tra l’originale e la replica, una scheggia di metaverso che si è incarnata sul suolo milanese e da lì ha conquistato l’insta-sfera. Come se vivesse dentro Matrix, o Snowcrash, il romanzo cyberpunk con cui il geniale scrittore americano Neal Stephenson ha introdotto proprio il concetto di metaverso che ispira il suo nom de plume. Lì il personaggio principale si chiama Hiro Protagonist, che suona come eroe protagonista.
“La vita è come un videogioco”, mi spiega mentre ci salutiamo, “c’è la missione principale, quelle secondarie. Solo che hai un unico life point, quando muori non torni”. E quando le chiedo come sta giocando, se è soddisfatta della sua partita, Alessandra Vuillermin mi risponde con il sorriso di chi la risposta la conosce già da tempo: “Io nella vita gioco hardcore”, sorride. “E tu?”