«Qui non c’è niente. Ecco una frase che ho sentito migliaia di volte, come se mi fossi rivolto non a delle persone ma a una segreteria telefonica.»
È forse in questo passaggio del Vocabolario Appenninico dello scrittore Franco Armino, che si cela il senso ultimo del nuovo lavoro di Simone Donati, fotografo toscano noto soprattutto per essere uno dei fondatori del collettivo TerraProject, caparbiamente attivo da anni in Italia e nel mondo con progetti di largo respiro e benvenuta profondità.
Se il vocabolario stilato da Armino traccia infatti un percorso poetico con cui Donati intesse un dialogo visivo costante, è proprio su questa frase, “qui non c’è niente”, che testi e fotografie convergono, perché è proprio questa la frase che Donati stesso si è sentito più spesso dire durante la realizzazione di questo progetto.
I soggetti delle sue foto, persone, paesaggi o interni che siano, sono quelli incontrati attraverso una lenta e serena campagna di documentazione lungo la dorsale appenninica meridionale che, attraverso Basilicata, Campania e Molise, dalla Calabria arriva al confine con l’Abruzzo. Un’Italia che è costituzionalmente centrale eppure concettualmente sempre ai margini, una linea geografica che unisce punti molto distanti tra loro eppure così vicini per vissuto, poetica e portato emozionale.
È un’Italia, quella di Varco Appennino (Witty Books, 2021, con design di Fiorenza Pinna), che rappresenta quindi il rovescio della medaglia rispetto a quella ritratta in Hotel Immagine, il precedente libro di Donati: alla pratica nazionalpopolare e ferocemente contemporanea dell’ostentazione—quella impressa nell’immagine stereotipata che l’Italia offre di sé stessa—legata ai riti di devozione sacra e profana, si contrappone qui una silenziosa dignità interiore che si fa, grazie all’occhio affettuoso e partecipe di Donati, soppesata e consapevole dignità esteriore.
Qui non c’è niente, quindi. Una frase che sembra rassegnata, e che ha qualcosa di involontariamente autoironico. Perché è un niente che dice molto, un niente che magari contiene risposte a domande che solo oggi stiamo timidamente cominciando a farci. Ritorno alla terra, riscossa della provincia, rivalutazione delle aree interne, e adesso turismo di prossimità: la crisi economica prima, e quella pandemica poi, risultano in una crisi di identità che questi luoghi, con la loro capacità innata di preservare, appunto, l’identità, sembrano ora essere capaci di risolvere, forse e purtroppo in modo già fin troppo facilmente strumentalizzabile da chi ha sempre guardato da un’altra parte.
Fondamentale, quindi, il paragone con la segreteria telefonica proposto da Armino, uno che di luoghi che hanno apparentemente poco da dire ha detto molto, e da molto tempo. È infatti proprio contro la stolidità meccanica di una segreteria telefonica, cioè di un’Italia che non risponde e che si nega, che si pone la caparbietà dello sguardo di Donati. Uno sguardo gentile ma deciso, che non mira a smussare gli angoli di un Appennino a tratti spigoloso ma che, rendendosi a sua volta palese, disponibile e accessibile, riporta alla luce realtà che avrebbero potuto essere da sempre sotto gli occhi di tutti.
Con Varco Appennino Simone Donati sarà, assieme a Roselena Ramistella, Mario Spada, Massimo Di Nonno, Carlotta Cardana, Jacob Balzani Lööv, Marina Lalović, Matteo Tacconi, Giorgio Bianchi e Emanuele Confortin, tra gli ospiti della prima edizione del Festival del Reportage, che si tiene ad Ascoli Piceno dal 23 al 25 luglio.