Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1053, gennaio 2020.
A New York, in una sala al terzo piano del MoMA, è installato Lampadina ad arco, un quadro dipinto da Giacomo Balla tra il 1910 e il 1911. Riproduce la luce emanata da un lampione che riempie quasi interamente la superficie pittorica e sembra espandersi oltre i suoi confini per irradiare l’ambiente circostante. Dietro quest’aureola luminosissima si intravede uno slavato quarto di Luna, emblema della natura e del Romanticismo di cui i futuristi come Balla reclamavano l’annientamento metaforico. Questo quadro è senz’altro un manifesto del fervore tecnologico del Futurismo, ma è anche il primo paesaggio fatto di luce elettrica che, in qualche modo, prefigura le diverse tipologie
di installazioni ambientali luminose realizzate dagli artisti nel corso del XX secolo, a partire da quelle pionieristiche concepite da Lucio Fontana una quarantina d’anni più tardi. L’artista, nato in Argentina nel 1899 da genitori italiani, è noto per i Concetti spaziali, quelle tele tagliate e bucherellate talmente dirompenti da diventare un cliché del presunto cerebralismo dell’arte ‘moderna’.
Eppure, partendo dalla lezione dei futuristi – di Balla. ma anche di Umberto Boccioni che, nel suo Manifesto tecnico della scultura futurista del 1912, scriveva di “scultura d’ambiente, capace di modellare l’atmosfera che la circonda” – è a sua volta autore di una grande rivoluzione artistica condivisa col pubblico dalla fine degli anni Quaranta alla fine dei Sessanta, rimasta circoscritta per decenni agli interessi degli studiosi. La data in cui tutto ha inizio è il 5 febbraio 1949 quando, a Milano, la Galleria del Naviglio viene trasformata da Fontana nell’installazione Ambiente spaziale. Illuminazione a luce nera di arte/luce. Quella sera, gli invitati si trovarono immersi in uno spazio oscurato (e dematerializzato) in cui una luce di Wood illuminava elementi scultorei appesi al soffitto e alle pareti: un’esperienza totalizzante e disorientante che intendeva stimolare una nuova consapevolezza di sé prima che dello spazio stesso.
“[...] entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva col suo stato d’animo del momento [...] l’uomo era con se stesso, colla sua coscienza, colla sua ignoranza, colla sua materia”. Così ricorderà Fontana questa esperienza iniziale e iniziatica. Parole che sembrano risuonare nell’interesse di Olafur Eliasson, artista danese di origini islandesi e di fama globale, per “il potenziale autoriflessivo nell’arte: la nostra capacità di valutare noi stessi nel nostro ambiente[1].”
Analogamente a quanto fece Fontana, circa mezzo secolo dopo e da una prospettiva scandinava, Eliasson realizza ambienti in cui, attraverso l’azione destabilizzante di effetti cromatico-luminosi sulle convenzioni percettive, vuole stimolare le persone che ne fanno esperienza a diventare più consapevoli di loro stesse e delle proprie azioni nei confronti della collettività e dell’ambiente. Diventato una star nel 2003, quando ha trasformando l’enorme sala delle turbine della londinese Tate Modern in un paesaggio atmosferico sovrastato da un disco di luce gialla, a metà tra l’oculo del Pantheon e un sole incandescente, Eliasson ha iniziato a lavorare con luce e spazio, creando forme astratte di natura, a fine anni Novanta. A partire da Room for one color (1997), in cui gli astanti, illuminati da luci gialle, riescono a percepire se stessi e gli altri solo in tonalità di grigio, come se il mondo fosse improvvisamente diventato in bianco e nero; per continuare con interventi come 360° room for all colours (2002) e Your colour memory (2004), ambienti curvilinei che avvolgono i visitatori con superfici cromaticamente cangianti che ne alterano momentaneamente le percezioni attivando una messa in discussione dello status quo percettivo.
Avvezzi come siamo oggi a opere ambientali multisensensoriali e dispercettive, forse non riusciamo a cogliere la portata radicalmente innovativa dell’Ambiente nero, che al tempo guadagnò la copertina del numero 236 di Domus del 1949 dedicato ai rapporti tra arte e architettura. “Si potrà fare un’arte nuova con la luce”, dichiarava Fontana che, fino alla sua morte nel 1969, realizzò ancora una dozzina di ambienti nei quali ha decostruito i formati classici della pittura e della scultura, puntando a un’arte totale dove ricreare un’unità ideale di spazio e tempo attraverso la luce. Come, per esempio, in uno dei due ambienti Utopie – realizzati nel 1964 con Nanda Vigo per la XIII Triennnale di Milano curata da Vittorio Gregotti con Umberto Eco –, immerso in una luce rossa che riverberava sulle pareti foderate di carta da parati metallizzata, mentre il pavimento ondulato era ricoperto da una spessa moquette ugualmente vermiglia.
Oppure nell’Ambiente spaziale immaginato per il Walker Art Center di Minneapolis nel 1966, completamente buio, riconfigurato da un grande rettangolo disegnato con punti di luce neon verde, entro cui il disorientamento dei visitatori era ulteriormente enfatizzato dalla morbidezza del pavimento gommoso. Ancora, nell’Ambiente spaziale a luce rossa concepito l’anno dopo allo Stedelijk Museum di Amsterdam: una stanza divisa in corridoi paralleli irrorati di luce scarlatta. Se l’opera di Fontana, che agì nel Secondo dopoguerra con un’attitudine di rinnovamento alquanto diffusa in quegli anni post-bellici, irradia un senso di possibilità di ricostruzione dell’universo, e di rinegoziazione della posizione dell’essere umano al suo interno, in Eliasson, nel nostro presente di emergenza climatica, sembra prevalere la posizione di salvaguardia del pianeta attraverso la riattivazione di un’autocoscienza che agisce in un sistema collettivo di cui anche l’ambiente fa parte.
Per quanto lontani nel tempo e nelle intenzioni, i due artisti sembrano condividere la fiducia nella capacità dell’arte, intesa come un unicum sospeso tra gioco ed esperimento scientifico, di innescare trasformazioni nell’individuo che riverberano nella società e, più nello specifico, una fiducia nella luce come strumento incomparabile per costruire ambienti in cui testare un futuro condiviso e possibile. Utopie realizzabili che, nel presente alterato dalla pandemia e momentaneamente, si spera, ridisegnato dal distanziamento sociale, appaiono più urgenti che mai.
- [1]:
- Olafur Eliasson in conversazione con Doug Aitken, in Broken Screen: Expanding the Image, Breaking the Narrative; 26 Conversations with Doug Aitken, ed. Noel Daniel (New York 2006), pagina 110