Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020
Il modello di una palazzina per uffici di quattro piani, abbastanza grande da richiamare l’attenzione di chi passa in auto o a piedi, ma troppo piccolo per essere utilizzato come edificio, e comunque troppo massiccio per suggerire una casa di bambola, sia pure smisurata. È un monumento? È la ricostruzione di un luogo storico o della scena di un delitto? Il sito, un anonimo fazzoletto di verde tra un distributore di benzina, dei semafori e un velodromo a Oerlikon, non lontano da Zurigo, non fa che accrescere il mistero.
Ma se fosse sbagliato pensare che Haus debba necessariamente derivare il suo ipotetico significato da un altro edificio ‘reale’, magari una piccola fabbrica con annessi uffici della periferia cittadina, per esempio la sede di una piccola-media impresa? E se la sua funzione di modello fosse di fatto secondaria e la costruzione fosse in realtà un inganno manipolatorio della percezione della distanza dall’oggetto, ottenuto diminuendone tutti i particolari più familiari (finestre, porte, scale, piattaforma di carico) in modo da fare sembrare tutto “troppo piccolo” rispetto alle aspettative di chi la guarda? In questo caso, il problema starebbe forse non tanto nell’edificio rappresentato dall’artefatto – un particolare luogo di attività industriale –, ma nella mente dell’osservatore, ovvero nel suo atteggiamento verso di esso e nei suoi ricordi di questo genere di edifici? La riduzione della scala non dovrebbe essere quindi considerata equivalente a una forma di distacco emotivo e di distanziamento temporale? Comunque sia, Haus, così come si trova oggi nella sua terra di nessuno semi-industriale, è tanto una figlia della periferia di Zurigo quanto un omaggio che le viene rivolto. Per quanto anomala sotto più di un aspetto, Haus potrebbe rivelarsi uno dei pezzi più importanti dell’opera di Fischli/Weiss.
Non solo: la sua complicata origine è parte di un’insolita storia di ricerca sperimentale in ambito urbanistico.
La scrivania
Peter Fischli (1952) e David Weiss (1946–2012) sono cresciuti nei dintorni di Zurigo; Fischli nella cittadina di Meilen, sul Lago di Zurigo, Weiss nel quartiere semi-industriale di Albisrieden. I loro percorsi si sono incrociati in città e, visitando insieme Möbel Pfister, “il più grande negozio di mobili della Svizzera” (nel vicino cantone di Aargau e noto alle persone colte per il suo gusto ‘volgare’), decisero di unire le loro forze in funzione di precisi, benché non ancora definiti, impegni artistici. Non molto tempo dopo, realizzarono la prima versione di Haus, in grande formato, come parte di una serie di oggetti di poliuretano tutti dedicati a temi ‘architettonici’ (Sculture grigie, 1984-1986). All’epoca, Fischli aveva 32 anni, Weiss 38. Haus era un’eccezione nella serie, per il suo notevole formato (120 x 110 x 160 cm) e per l’attenzione ai dettagli insolitamente accurati.
Qualche tempo dopo, nel 1985, Fischli e Weiss tennero la prima importante antologica della loro opera, intitolata “Ein ruheloses Universum” (“Un universo irrequieto”), alla Kunsthalle di Basilea. Haus, come un massiccio, sgraziato pezzo d’arredo, conquistava il posto d’onore tra le numerose opere in mostra: sembrava un’affermazione perentoria di fronte alle altre opere. “Haus ha all’incirca le dimensioni di una scrivania”, scrisse il critico d’arte e saggista Patrick Frey. Nella sua massiccia corposità, Haus era “più di un semplice modello sui generis”, notò Frey. Pareva fare parte dell’arredo della Kunsthalle e perciò diveniva immediatamente “una presenza fisica, totalmente aliena e tuttavia quasi diabolicamente familiare”. Vero è che certi visitatori possono avere sottovalutato Haus a causa dell’apparente normalità dell’oggetto.
Quello che senza dubbio nella mostra suscitava curiosità più di ogni altra cosa era Plötzlich diese Übersicht (“Improvvisamente questa panoramica”, 1981–oggi), collezione ormai leggendaria di circa 200 piccole sculture di argilla, miscela di “pettegolezzi, fissazioni, miti, leggende e storie bibliche” realizzate in terra cruda, come in un vomito notturno della memoria collettiva (la serie venne di fatto realizzata in quattro settimane). E poi c’era Fieber (1983-1984), un gruppo di intagli di poliuretano, grandi, multicolori, grezzi e grinzosi, figurazioni bio e zoomorfiche che sembravano scaturire dalle fantasmagoriche visioni di un Hieronymus Bosch che, durante la realizzazione, fossero cadute nelle mani di un attrezzista da film dell’orrore: invocazioni più grandi del naturale di un’accolita di spiriti maligni della Madre Terra.
Haus ha preso possesso come con un colpo di gong della “terra di nessuno” tra architettura, urbanistica e scultura
In mezzo stava Haus, manifestazione di ordine burocratico, unito alle trappole dell’attuale ingegneria igienica, come se si trattasse in qualche modo di controbilanciare l’anarchia delle primordiali sculture di terra e della Notte di Valpurga di Fieber. L’irritazione provocata dalla natura ambivalente di questo oggetto (una scrivania? il modello di un edificio?) suscitava domande di ogni genere. Per esempio, sul significato delle strutture stereometriche del tetto: erano camini e prese d’aria meticolosamente ricostruiti, oppure cisterne per il sistema antincendio?
Non sembravano anche un po’ calamai, temperamatite, gomme e portamatite sulla scrivania di un impiegato? Tuttavia, il paradosso non stava tanto nel contrasto tra le discipline della scultura e dell’architettura (o dell’architettura d’interni) quanto nell’evidente inversione dei loro tradizionali modi d’interpretare la ‘natura’. Mentre in Plötzlich diese Übersicht gli artisti deformano selvaggiamente natura e figurazione – fino al “ribaltamento dell’effetto illustrativo” (Jean-Christophe Ammann) – in Haus arrivano a stupire con la meticolosa mimesi del loro artificio. L’arte ‘astratta’ dell’architettura diviene così il soggetto ‘figurativo’ della scultura.
Dal ‘modello’ alla “scultura architettonica”
Dopo la mostra di Basilea, nel 1987, Fischli/Weiss realizzarono una versione di Haus molto più grande (350 x 370 x 410 cm) per la mostra “Skulptur Projekte” allestita a Münster. Era, per usare le parole del critico d’arte Robert Fleck, la loro “prima opera monumentale destinata a uno spazio pubblico”.
Come scultura, fatta di legno dipinto e di plexiglas, l’opera non mancò di suscitare irritazione. Si dice che Mario Merz, anch’egli presente a Münster con alcune opere, battesse le nocche sul modello e commentasse ironico: “Ma è di legno!”.
Tuttavia, la qualità transitoria e la fisicità ‘effimera’ dell’opera non erano forse perfettamente appropriate alla sfida posta dal tema della mostra, che implicava la creazione di un collegamento tra la scultura da un lato e il progetto di architettura dall’altro?
Dopotutto, presentando in mostra un “progetto di scultura” gli artisti riproponevano anche un’antica tradizione di architettura effimera, aspetto profondamente importante, ma non studiato bene dell’architettura rinascimentale e barocca.
Perciò Haus, che sia un progetto d’architettura oppure una scultura, ha preso possesso come con un colpo di gong della “terra di nessuno” tra architettura, urbanistica e scultura. E l’ha fatto proprio nel momento in cui quella sfera iniziava a essere interessante per l’arte.
Architetture in mostra
La ‘rinascita’ nell’arte del modello d’architettura, illustrata dalla Kunsthalle di Basilea nel 1985, non ebbe luogo per caso. Negli anni Ottanta, architetti e architettura stavano per fare il loro ingresso nella sfera delle narrazioni mitiche meritevoli dell’attenzione del pubblico. L’Europa della fine degli anni Settanta ha assistito a una vera e propria alluvione di mostre d’architettura e di nuovi musei di architettura, culminata nel 1980 con “La presenza del passato”, la prima mostra di architettura della Biennale di Venezia. Pochi anni dopo, nel 1984, s’inaugurava il Deutsches Architekturmuseum (DAM) di Francoforte. La villa che oggi ospita il museo venne svuotata e sventrata, mentre un architetto, Oswald Mathias Ungers, ‘occupava’ il nucleo centrale dell’edificio con il modello di una casa a due piani che rimane ancor oggi una sorta di simbolo del DAM.
Jean-Christophe Ammann, all’epoca direttore della Kunsthalle, non ignorava la crescente visibilità dell’architettura nell’orizzonte della cultura visiva degli anni Ottanta. Proprio a Basilea ne fu un precoce indizio Senza titolo (1969) di Donald Judd, sei contenitori d’acciaio laminato a freddo, esposti in posizione centrale al Kunstmuseum di Basilea nel 1975 e precursori di opere a venire, anche se la loro connessione con l’architettura è più concettuale che figurativa. La crescente visibilità di Richard Serra in città orientò anch’essa il discorso del museo sui temi della forma e dello spazio costruiti.
Nel corso di questo processo, il modello d’architettura divenne un ospite permanente del mondo delle gallerie e dei musei. Forse la sua avvincente natura di rappresentazione riusciva a restaurare almeno in parte l’immediatezza figurativa che pittura e scultura avevano perduto sull’onda dell’Astrattismo e nel culto della soggettività esoterica? Comunque sia, artisti come Dan Graham, Per Kirkeby, Rachel Whiteread, Thomas Schütte e Siah Armajani, tanto apprezzati da Ammann, colmarono potentemente la sensazione di vuoto semantico che l’astrazione si era lasciata dietro.
Per non parlare dell’“effetto bomba al neutrone” delle ricostruzioni di scene del delitto sinistramente meticolose di Thomas Demand, il cui recupero della funzione architettonica del modello in quanto prova storica è anche più esplicita di quella di Plötzlich diese Übersicht.
Stanislaus von Moos è uno storico dell’arte e un teorico dell’architettura. Ha insegnato in tutto il mondo e ha pubblicato diversi libri riguardanti, tra gli altri, Le Corbusier, il Rinascimento italiano e il design del XX secolo. Questo testo è un estratto del suo ultimo libro Fischli/Weiss: Haus, curato dalla Fondazione Luma e pubblicato da Verlag der Buchhandlung Walther König (2020).