Fondazione Prada dedica una mostra alla produzione cinese di porcellane da esportazione tra il XVI e il XVIII secolo e per i curatori Luisa Vinhais e Jorge Welsh il percorso espositivo “più che una mostra di singole opere d’arte” è “un’installazione contemporanea che il visitatore può attraversare, vivendo l’esperienza della porcellana”.
Che cosa comporta dunque sperimentare tale materiale? Da una parte vi è la possibilità di calarsi in un ambiente letteralmente rivestito di piatti, ciotole, vasi e contenitori. Ossia saggiare in prima persona l’effetto di quella ridondanza materica e formale propria dei cabinets delle porcellane e dei rivestimenti ornamentali nei salottini alla cinese di tanti palazzi, dimore signorili e castelli europei, da Charlottensburg a Capodimonte. Allo stesso tempo, vivere l’esperienza della porcellana vuol dire anche immergersi nella fascinazione di oggetti portatori di un significato culturale che trascende l’immediata destinazione d’uso delle opere. Oggetti le cui vicende amplificano la risonanza emotiva e il potere evocativo dei manufatti al di là della loro funzione quotidiana, aprendo a temi più vasti della storia dell’immaginario europeo.
Una mostra dedicata alle porcellane prodotte per l’esportazione evoca infatti una situazione storica che ha condizionato a lungo le forme di ricezione di questi materiali in Europa. Per secoli la porcellana fu esclusivamente un prodotto di importazione proveniente dalla Cina che ne custodiva gelosamente i segreti della fattura. La stessa Cina era del resto una terra mitica e quasi onirica di cui si sapeva pochissimo. Fonti della conoscenza su questo paese erano le scarse notizie che trapelavano dagli avventurieri e le merci di lusso che attraverso le rotte eurasiatiche, terrestri prima e marittime poi, raggiungevano infine i mercati occidentali.
Sulla porcellana, così come sulla seta - l’altra grande protagonista delle importazioni e della costruzione dell’immagine europea dell’Oriente -, circolavano svariate leggende e improbabili teorie sui metodi di fabbricazione. Ad esempio, si passava dal credere che fosse necessario lasciare riposare per decenni l’impasto di terre da cui plasmare la futura porcellana, fino a supporre come essa si ottenesse addirittura dai gusci d’uovo di aragosta. Benché già dal Medioevo e soprattutto dal primo Rinascimento alcune porcellane cinesi avessero raggiunto l’Europa, il segreto della fabbricazione della porcellana fu svelato solo in piena età Moderna.
La componente di feldispato della miscela argillosa in grado di donare trasparenza e resistenza alla porcellana fu infatti identificata solo al principio del XVIII secolo dall’alchimista Johann Friedrich Böttger, al soldo dell’elettore di Sassonia Augusto il Forte, estimatore e avido collezionista delle porcellane cinesi, il quale si affrettò a far impiantare nel 1710 la Reale Manifattura di Sassonia a Meissen, vicino Dresda.
Per secoli dunque la porcellana fu un prodotto esotico e ambitissimo che incarnava l’essenza stessa dell’alterità nella sua provenienza, nella sua tecnica sconosciuta e irriproducibile e nel suo repertorio ornamentale fatto di motivi bizzarri, piante, fiori e animali, che incantavano il pubblico europeo e lo invitavano a sognare di mondi lontani. Proprio da questi sogni ha origine il fenomeno culturale tutto europeo dell’orientalismo, ossia della creazione di un Oriente inventato sulla base delle proprie aspettative e proiezioni. A un tale orientalismo bisogna far riferimento, quando dal Cinquecento i Portoghesi di stanza a Macao attivarono per la prima volta un commercio su vasta scala delle porcellane estremo orientali.
Se già nei decenni precedenti gli artigiani cinesi avevano orientato una parte delle loro produzioni di porcellane bianco-blu a realizzazioni destinate al mercato estero, le commissioni portoghesi accentuarono l’ingerenza europea nella costituzione del repertorio iconografico e formale di questi manufatti. Dall’inserzione di stemmi e temi cristiani tra i motivi decorativi asiatici o dalla commissione di utensili dalla forma prettamente occidentale ornati però con il repertorio tipico dei bianco-blu nei cosiddetti primi ordini portoghesi, si passò progressivamente alla richiesta di prodotti che corrispondessero alle aspettative del gusto europeo, distanziandosi sempre più dallo stile originario delle fornaci cinesi.
Nel corso del XVII e XVIII secolo le diverse compagnie delle Indie fornirono perfino i modelli di disegni alla cinese inventati da decoratori europei per oggetti come i complessi servizi da tavola riferiti esclusivamente all’etichetta e alle pratiche culturali occidentali. Il risultato fu quell’immagine edulcorata e ben nota della Cina, fatta di pagode, parasoli e cappelli conici, un’immagine che si radicò nell’immaginario europeo, sopravvivendo nelle chinoiserie “più vere degli originali” di tante stoviglie, tazze e teiere ancora presenti fino a tempi recenti sulle nostre tavole.
Per secoli dunque la porcellana fu un prodotto esotico e ambitissimo che incarnava l’essenza stessa dell’alterità nella sua provenienza, nella sua tecnica sconosciuta e irriproducibile e nel suo repertorio ornamentale fatto di motivi bizzarri, piante, fiori e animali
Dopo aver toccato un nodo centrale delle pratiche di fruizione delle opere d’arte, come quello delle motivazioni che guidano l’atto del collezionare nella mostra Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori (20 settembre 2019 – 13 gennaio 2020), la Fondazione Prada continua dunque ad esplorare il rapporto che l’uomo nel corso della sua storia ha instaurato con particolari classi di artefatti, curiosité e objects d’art. In una sorta di lettura antropologica dei media artistici, la porcellana diviene così materiale d’elezione per affrontare componenti affasciananti e quanto mai attuali dell’essere umano come la ricezione e la percezione dell’alterità culturale.
- Mostra:
- The Porcelain Room. Chinese Export Porcelain
- Curatori:
- Jorge Welsh e Luísa Vinhais
- Allestimento:
- Tom Postma Design
- Luogo:
- Fondazione Prada, Milano
- Date di apertura:
- 30 gennaio-28 settembre 2020