Una città in festa, colorata dai vari stendardi che decorano le contrade. Una città che si chiude tra le sue mura e si prepara all’evento più importante: il Palio di Siena. La città si svela nelle sue meraviglie, con semplicità per un visitatore qualunque, ma capire il palio e il suo sentimento è quasi impossibile.
Lo scorso 2 Luglio è andato in scena, puntuale, il primo dei due appuntamenti più importanti per la storica città toscana: il Palio della Madonna di Provenzano. La Selva vince con il fantino Giovanni Atzeni, detto Titta, in sella a Violenta da Clodia.
Urla, lacrime, gioia, sgomento, liti, scherni. Il Palio è tanto, il Palio è tutto per la città. Una città ricca di storia e arte che tra le sue mura nasconde meraviglie e Siena non è solo il Palio.
Terra di Siena. L’evocazione sembrerebbe bucolica. Ampie distese di terra e verdi intesi dati dagli ulivi, dai lecci o dai cipressi che danno ritmo al paesaggio. Terra di Siena, una polvere dal potere colorante, una terra bruna e calda, un colore che da materia all’arte di quella provincia alla base di molte composizioni cromatiche.
Siamo nel XIII secolo, il buon secolo della pittura senese, quando un nuovo linguaggio pittorico, un’idea lontana e divergente da tutta la pittura che in quegli anni si stava sviluppando nelle regioni del centro Italia, ma soprattutto da quella della vicina Firenze, iniziò a fiorire.
Siena in quegli anni era una città molto potente, che contava su un’economia florida e una stabilità politica. Anni di magnificenza economica e soprattutto culturale.
“Il più celebrato maestro che uscisse dalla scuola di Guido (di Graziano), è Duccio di Buoninsegna, il quale pur continuando nella maniera greca, la rese nondimeno vieppiù migliore” Così Gaetano Milanesi introduce il primo maestro di questo buon secolo: Duccio di Buoninsegna.
Pittore raffinato e colto, nacque a Siena nel 1255. Fu allievo di Cimabue, dal quale però si distaccò nella resa artistica, servendosi di quella tradizione per trarne nuove forme.
La ricchezza cromatica, completamente distante da quella fiorentina, portò Duccio a essere il capostipite di una pittura che guarda più alla Francia, dallo stile più gotico, dallo stile senese.
Operaio del duomo di Siena, inizia a dipingere intorno al 1308, quello che oggi è considerato il suo più grande capolavoro: La Maestà del Duomo di Siena.
Un polittico dalle dimensioni imponenti che vede un susseguirsi di volti cadenzati da corone di Santi, angeli e religiosi in preghiera. Al centro la Madonna, la Maestà. L’intera scena si argomenta in una prospettiva gerarchica. Maestosa, appunto, è la Vergine Maria che tiene sulle sue gambe Gesù ancora bambino. La figura occupa lo spazio e le dimensioni delle architetture del trono che accolgono e proteggono. Un ritmo strepitoso, ordinato, fermo, che parte dal centro e snoda la scena.
Un fondo oro, dal gusto bizantino, illumina e glorifica le figure.
Duccio dipinse la pala d’altare sul verso e sul retro dove narra la passione e la resurrezione in 26 predelle.
“Duccio sa, come nessun altro, immedesimarsi nella vita e nell’animo dei suoi personaggi: se gli manca forse la veemenza della passione, vi supplisce con la soavità e la profondità del sentimento. Giotto, energico e alle volte anche un po’ massiccio, ricerca sempre l’eroico; Duccio, più delicato, si attiene a ciò che è semplicemente umano. Giotto è pur sempre il figlio di un contadino toscano, ma Duccio ci appare piuttosto un cittadino raffinato, che l’indole aristocratica e colta tiene lontano dal chiasso e da ogni forma di esibizione.”
C. H. Weigelt, La pittura senese del trecento, 1930
Siena e Firenze, due città da sempre a confronto. Due città vicine, dalle vite diverse. Una ghibellina, l’altra guelfa, una più ricca e solenne nella pittura, l’altra più prospettica e audace nei colori.
Giotto fu, per la pittura fiorentina, il più grande innovatore, una pittura reale dove le prospettive erano enfasi di figure volumetriche, mentre Duccio si concentra su atmosfere più rarefatte, interpretando la realtà della sua pittura in maniera più fiabesca, raffinata, attraverso figure sinuose, tessuti riccamente decorati e dettagli guarniti d’oro.
Le forme gotiche, sperimentate dal Buoninsegna, furono perfezionate e accentuate da Simone Martini, suo allievo e altro grande interprete del gotico senese. Linee sinuose e colori tenui, creazioni al di sopra di ogni verosimiglianza realistica, una pittura intensa, quella martiniana, espressione di quel figurativismo, elemento fondamentale per questo genere di pittura.
Sulla parete settentrionale della Sala del Mappamondo del Palazzo pubblico di Siena si estende per circa 110 metri quadri una delle opere più note del Martini, un capolavoro religioso che conserva anche un messaggio etico-politico, un’altra Maestà.
Molti gli elementi di distacco, Martini abbandona il fondo oro e lo sostituisce con un più realistico blu, un colore sempre prezioso, ancor più ricco e costoso per la sua realizzazione poiché ottenuto dal lapislazzuli.
L’opera vede al centro un baldacchino dal gusto cortese, dove a sorreggerlo sono alcuni Santi.
La Madonna, Regina di Siena, rimane sempre al centro dell’opera così come i Santi rimangono disposti simmetricamente ai suoi lati. Austera, indifferente, mentre il bambino partecipa all’intera scenografia prospettica. I Santi patroni di Siena sono in primo piano, inginocchiati. Dall’immagine alla parola, un dialogo che viene dipinto. Il bambino è in posa, benedicente, mentre con la mano sinistra sorregge un cartiglio che riporta “ Diligite Iustitiam qui iudicatis terram”, l’incipit del Libro della Sapienza. Maria risponde alle preghiere, dei Santi e dei patroni della ciitta con delle parole che si leggono nel bordo inferiore della cornice: “Diletti mei ponete nelle menti/che li devoti vostri preghi onesti/ come vorrete voi faro cotenti/ ma se i potenti ai debili fine molesti/ gravando loro o con vergogne o danni / le vostre oration non son per questi / ne per qualunque la mia terra inganni”.
Continua il suo discorso rispondendo anche agli angeli che le porgono doni floreali: “Li angeliche fioretti rose e gigli / onde s’adorna lo celeste prato, / non mi diletta più che i buon’ consigli / ma talor peggio chi per proprio stato/ disprezza me e la mie tera inganna, / e quando parla peggio è più lodato. / Guardi ciascun cui questo dir condana”.
Un omaggio alla Vergine che si trasforma in propaganda politica, un’esaltazione della committenza, che altri non era che il governo dei nove, ovvero una delle principali magistrature della Repubblica di Siena.
La tradizione politica, essenziale al tempo, soprattutto a sottolineare le grandi rivalità tra Siena e Firenze, prosegue e si svela ancor di più attraverso il pennello di un altro grande artista senese, il quale compone un ciclo di affreschi non più velato nel suo messaggio, ma chiaro, palese: Ambrogio Lorenzetti.
“Fu lume bellissimo della Scuola Senese, ed uno dei primi che di alti e nobili concetti informasse le rappresentazioni dell’arte: di modo che egli in questo non solo paragoni, ma passi facilmente gli artefici dei suoi tempi.” Ancora Gaetano Milanesi che nella sua Storia dell’Arte Toscana, scritti varj, descrive così il maestro senese.
Nei decenni che seguirono, soprattutto nella prima metà del XIV secolo, due fratelli, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, iniziarono a imporre la loro arte, la loro visione artistica, considerati poi i veri eredi del rinnovamento giottesco. Fratello minore di Pietro, Ambrogio fu quello di maggior successo, il più “fiorentino” tra i maestri senesi. Nel 1337, dopo la partenza di Duccio di Buoninsegna per Avignone, venne scelto da governo della città per rappresentare il proprio manifesto politico all’interno del Palazzo pubblico: L’allegoria del Buon Governo e del Cattivo Governo.
Manifesto tanto agognato dall’uomo medievale, soprattutto dai cittadini della ricca Siena, viene argomentato dal Lorenzetti in maniera dettagliata, in cui l’iconografia non tratta solo teorie politiche, ma rappresenta la ricerca del bene comune, un’argomentazione dove la dimensione del singolo è necessaria a forme di governo virtuose.
Nella rappresentazione della plumbea città medievale, dove le regole prospettiche si devono adattare alle composizioni, la pittura del Lorenzetti torna, attraverso il linguaggio descrittivo all’evocazione fiabesca che Buoninsegna ci aveva proposto. La narrazione diventa politica.
L’affresco si articola su due parti ben distinte, due sezioni. Una grande figura demonica al centro della scena sta a rappresentare il Cattivo Governo, prosopopea della Tirannide. Siena la sorregge, mentre tre figure alate la controllano dall’alto. Ai suoi piedi una capra nera, simbolo del male, in antitesi con l’icona della lupa che allatta i gemelli nell’affresco dirimpetto, quello del Buon governo. Avarizia, superbia, vanagloria, crudeltà, tradimento, frode, furore, divisione e guerra, vengono rappresentate per simboleggiare il sovvertimento del Buon governo. La Giustizia, che domina nel Buon governo, viene qui rappresentata legata, imprigionata, con ii piatti della bilancia rovesciati. Disarmonia, dettata sopratutto dai colori scuri ed espressa nelle varie personificazioni del male, è il concetto che esce dal dipinto, completamente antitetico a quello del Buon governo, che vede la presenza delle virtù cardinali, della Pace e della Magnanimità.
Annota Goethe, nel suo Viaggio in Italia: “Qui sono tutti in urto, l’uno contro l’altro, in modo che sorprende. Animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda. Non si è semplicemente toscani. O sei di Siena o sei di Firenze. O sei guelfo o ghibellino, o sei della contrada dell’Aquila o sei della Selva, de il Bruco, la Chiocciola, la Civetta, il Drago, la Giraffa, l’Istrice, il Leocorno, la Lupa, il Nicchio, l’Oca, l’Onda, la Pantera, a Tartuca, la Torre o sei della contrada di Valdimontone. Non si è semplicemente di Siena”.
“A dirlo fra noi, la gentilezza sta di casa solo a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole.”
Curzio Malaparte, Maledetti Toscani