La mitologia degli Stati Uniti è la mitologia della propria fondazione e crescita, dalla conquista del west all’espansione delle città. Le metropoli più grandi sono dotate di una personalità forgiata nella musica, nella letteratura, nel teatro e ovviamente nel cinema. Ogni grande città ha un genere e un tipo di racconto a sé appiccicato dalla cultura popolare. E non c’è città più città di New York, protagonista e soggetto di tantissimi film sempre per raccontare l’accoglienza, la multiculturalità e il progresso, l’idea che in America ci sia posto per tutti. Sia con il crimine, sia con la legalità, sia con le arti e i sogni di grandi domani, sia con il duro lavoro, i film sul mito di New York raccontano l’espansione, i nuovi quartieri e il desiderio forte di un’ascesa sociale che fa rima con realizzazione di sé.
Per questo è così significativo che Steven Spielberg apra il suo West Side Story con un carrello sopra le macerie di New York. Sono i resti dei palazzi che vengono demoliti per far posto a strutture e centri riqualificati (tanto che il suo film non l’ha girato nei quartieri dell’originale ma in altri che gli somigliano perché quelli non hanno più l’architettura di inizio anni ‘60). Un quartiere popolare diventa uno borghese e chi ci vive lentamente viene messo ai margini. Con questa backstory inedita West Side Story del 2021 aggiunge a quello del 1961 un’idea politica. La guerra tra Jets e portoricani per il possesso del quartiere avviene all’ombra dell’arrivo di un’altra classe ancora: quella dominante. Entrambi saranno spazzati via ma perdono tempo in una guerra tra poveri. Molto più del film di Robert Wise questo è un film sulla città e su cosa le grandi città fanno alle persone. È un film su New York ma non uno dei soliti.
L’originale si muoveva sulla falsariga di Romeo e Giulietta. Nelle due fazioni delle gang ci sono un ragazzo e una ragazza che si innamorano anche se tutto dice che non dovrebbero. Nessuno può accettare la cosa e infuria una guerra per le strade di una città che era quasi metaforica. Questo è vero anche nel nuovo film. Ma se nel 1961 nelle strade del film non c’era nessuno e i ragazzi le riempivano di balli che erano sfide con coltello, liberi di muoversi come su un palco, stavolta invece lo scenario è una città viva, piena di gente. Una città vera, la vera New York e non una sua astrazione.
Tuttavia, invece di accogliere, questa New York caccia. Invece di espandersi si contrae e demolisce. La città dei sogni è il posto dove non possono più fiorire.
I ragazzi protagonisti si picchiano e si fanno la guerra ma in questo remake il controllo del loro quartiere è un’illusione.
“How I want to live in America!”, cantavano nell’originale elencando le possibilità fantastiche offerte dagli Stati Uniti a degli immigrati da Porto Rico e lo cantano ancora, perché le musiche sono le stesse, solo che poi, questa volta, lo stesso personaggio che l’ha cantato si dovrà ricredere. L’America non è più il posto migliore in cui realizzare i propri sogni, anzi! New York è una città che discrimina, caccia e marginalizza i poveri. L’antitesi del sogno americano.
Da sempre Hollywood tira un’equazione precisa tra ciò che le città sono, come si evolvono o cosa consentono e lo spirito della popolazione che le abita. New York è la città che non dorme mai e del duro lavoro, tanto quanto Los Angeles è la città dei sogni, del cinema e della musica.
Anche la protagonista ad un certo punto sognerà di essere ricca. Nell’originale era il segno del suo essere pienamente americana, dotata di un sano desiderio di avanzamento sociale, sempre con un domani migliore in testa, qui invece tutto avviene a partire dalla scenografia e dagli spazi in cui canta, in un interno altoborghese, con l’arredamento sofisticato che parla delle sue aspirazioni. Solo che è un arredamento finto, è una vetrina allestita. Il sogno americano è una truffa, uno showcase destinato a chi già ha.
Che tutto questo venga da Spielberg, cineasta solitamente molto vicino al cinema classico, e proprio nel momento in cui ricrea un classico hollywoodiano, è veramente l’ultima cosa che ci si poteva aspettare dal nuovo West Side Story. L’indicatore più potente di cosa sta cambiando nella maniera in cui gli Stati Uniti pensano e raccontano se stessi.
I quartieri gentrificati diventano il simbolo di come i pochi che hanno tutto mettono sempre più in difficoltà i molti che non hanno niente o hanno pochissimo. I palazzi grandi e belli, che una volta erano la maniera in cui l’America mostrava i muscoli, ora diventano il segno dei loro problemi. Ne avevamo scritto per Candyman. West Side Story, che pone grande enfasi sulla città, sui palazzi, sui quartieri e sulle strade, più avanza e più si svolge in ambienti vuoti e diroccati, decadenti e crepuscolari.
Solo che è un arredamento finto, è una vetrina allestita. Il sogno americano è una truffa, uno showcase destinato a chi già ha.
C’è una scena molto emblematica all’inizio del film, una che non era presente nell’originale. Dopo che le gang rivali si sono sfidate per il possesso di uno spazio urbano (un campetto in cui gli uni avevano dipinto la bandiera portoricana e gli altri gliel’hanno imbrattata) il poliziotto, che è lì per sorvegliare proprio i problemi dovuti alla gentrificazione e alle mutazioni del quartiere, spiega ai ragazzi che loro sono i figli di chi non ce l’ha fatta, che le famiglie che sono riuscite a fare il salto sociale non stanno più lì, stanno altrove. Il posizionamento all’interno della metropoli è tutto, e c’è chi se lo sceglie e se lo conquista e c’è chi invece lo subisce.
I ragazzi protagonisti si picchiano e si fanno la guerra ma in questo remake il controllo del loro quartiere è un’illusione, non sono padroni del loro destino, New York non è più la città di chi la abita, anche quando immigrato, ma di chi la domina. Sono le città a raccontare il popolo che le abita. Stavolta raccontano di un popolo che leva a chi non ha, per dare a chi già ha.
Immagine in apertura: West Side Story, Steven Spielberg, 2021