La corrente è cambiata. Il cinema d’autore dei nostri anni, quello dei festival e delle storie intime e intense, negli ultimi anni ha trionfato e trovato successo con operazioni di genere oppure che hanno un rapporto con il fantastiche o ancora sono fondate su mitologie che ieri appartenevano al cinema mainstream. Stiamo parlando di film grandi come Arrival o piccoli come The VVitch, di film arrabbiati e polemici come Get Out o delicatissimi come Lasciami entrare o ancora sperimentali come Titane (che quest’anno ha sbancato Cannes sedendosi sulle spalle di David Cronenberg e i suoi B movies degli anni ‘80).
In questo mutamento, che non avviene in una notte ma ci mette anni a passare da piccola tendenza, a timido tentativo fino a crescita costante e solida realtà, la Mostra del cinema di Venezia è stata in prima linea. È qui che tutto si mescola, che il Leone d’Oro lo vincono un anno un film filippino di 4 ore come La donna che canta e quello dopo La forma dell’acqua, un film con veri nomadi americani come Nomadland e anche una origin story politica come Joker. Ma anche al di là del massimo premio sono anni che nelle pieghe del concorso si vedono assieme ai più consueti film da festival anche western, opere di fantascienza anche da luoghi remoti del mondo e distopie a tutti i livelli di budget.
Il cinema non ha rinunciato a riflettere o sperimentare, semmai ha capito che lo stesso tipo di idee e suggestioni che girano sopra la testa degli interpreti di un dramma non sono svilite da una commedia, da un inseguimento, dalle pistole o dai super poteri. Chi conosce Blade Runner, Apocalypse Now!, Milano Calibro 9, Le catene della colpa o Un maledetto imbroglio lo sa da tempo ma negli anni in cui District 9 (senza passare dai festival) ha operato una fusione nuova di tematiche serie e cornice spettacolare, anche l’industria del cinema ha capito come rimettere in circolo per un pubblico maggiore la forma d’arte più elevata: creare qualcosa che racconti una storia come mezzo per scatenare un ragionamento più sofisticato nella testa di chi la guarda. È così che quella corrente è cambiata.
Non stupisce quindi che quest’anno nel concorso della Mostra del cinema di Venezia abbiano trovato posto un numero impressionante di film di questo tipo, opere d’autore con una visione d’autore e la maestria del cinema d’autore, che giocano, ruotano e ribaltano il cinema di genere in modi originali e complicati.
Lo spiega bene Official Competition, uno dei film che escono meglio da questo festival e che si spera abbia una grande vita davanti a sé. Capolavoro di comicità devastante con la testa, frutto di due autori argentini (Mariano Cohn e Gaston Duprat), da più di un decennio al lavoro sotto i radar mondiali e adesso sul proscenio grazie (finalmente) ad un budget alla loro altezza che gli ha consentito di assumere Penelope Cruz e Antonio Banderas. È la storia di un magnate della farmacia che compiuti 80 anni, per essere ricordato bene dalla gente, vuole produrre un film. Compra i diritti di adattamento del romanzo di un premio Nobel, compra la regista pluripremiata ai festival che va di moda e gli attori più forti. Il film racconta lo scontro per realizzare quest’opera intellettuale con il continuo uso di un umorismo cui non siamo abituati e che colpisce zone del cervello di solito dormienti. Non è il classico sovvertimento (aspettarsi una cosa e vederne avvenire un’altra) ma l’enfatizzazione di piccoli dettagli del quotidiano e della normale per metterne in evidenza l’ordinaria assurdità. Operazione intellettuale di grande livello e cinema altissimo che riempie la sala di risate.
Ma anche i drammi ucraini sulla guerra si sono adeguati! Somiglia infatti ad un torture porn di Eli Roth (almeno nella sua parte centrale) Reflection di Valentyn Vasyanovych, film di guerra in cui un chirurgo vive un’esistenza normale, borghese, che deve interrompere per un periodo di servizio nel conflitto contro la Russia. Lo vediamo all’inizio con la sua famiglia, poi in guerra, e poi di nuovo con la famiglia nella terza parte. C’è un perfezionismo formale fatto di inquadrature fisse e composizioni di incredibile precisione, oltre ad un grandissimo lavoro sulla recitazione, ma a stupire e dare senso a tutta la parabola, è il fatto che nella parte di guerra centrale, queste tecniche da cinema d’autore sono usate per mostrare come venga torturato e come assista a torture terribili. È un concetto da cinema spettacolare tradotto nella lingua e nei tempi del cinema d’autore, che più di quello commerciale sa come toccare le corde umane più profonde e quindi dare alla sofferenza una dimensione reale e concreta.
Che questa sia una grande tendenza lo conferma poi il cinema filippino, negli ultimi 10 anni stabilmente uno dei più attivi interessanti e in ascesa. Se Brillante Mendoza ha cambiato il classico dramma festivaliero e Lav Diaz ha allargato la definizione di film con opere fiume dalla durata immensa composte con un equilibrio formale incredibile a budget così piccoli che scatenano le risate al solo sentirli, adesso Erik Matti ha portato il sequel del suo On The Job del 2013, (intitolato On The Job: The Missing 8) che come quello è un film di pistole, un poliziesco girato in strada con tutti i crismi del genere ma a differenza dei film di qualsiasi altro paese è fatto tra le persone, usando gli scenari naturali con scarsissima preparazione degli stessi (non ci sono i budget per farlo) eppure con gli stessi risultati in termini di ritmo e senso del pericolo. Che è la parte stupefacente. Cinema che si alimenta della realtà, come tante volte abbiamo visto, che invece di farci un dramma ci fa una storia di polizia corrotta e inseguimenti in auto, come mai abbiamo visto.
E infine l’Italia, l’assente meno spiegabile dall’appello della grande ondata di cinema fantastico degli ultimi 30 anni, capace di brillare a livello internazionale solo con il cinema più tradizionale e mai con quello spettacolare, tenta il grande balzo in avanti. Freaks Out con la sua storia di nazismo nella Roma occupata del 1945 crea un ponte incredibile tra l’eredità del cinema del dopoguerra e gli americanismi hollywoodiani. Gabriele Mainetti era stato considerato un innovatore in patria da subito grazie al suo esordio, Lo chiamavano Jeeg Robot, spartiacque per il cinema nazionale tanto quanto Freaks Out vuole esserlo per il cinema (quantomeno) europeo. Ci sono voluti 6 anni per realizzarlo (va detto che era pronto per il 2020 poi è arrivata la pandemia…), ma il risultato vale la pena. Superpoteri, soprusi, assalti ai treni, partigiani mutilati e tutti i fronti gli uni contro gli altri per sognare un cinema per tutti con risate, esplosioni, una lacrima e lo spettacolo è stato accolto a braccia aperte da Venezia. E in concorso! Lo stesso luogo che solo 10 anni fa non ne avrebbe voluto nemmeno sentirne parlare.
Se tutto questo non bastasse a dare un quadro completo c’è anche Mona Lisa And The Blood Moon, a tutti gli effetti un B movie anni ‘80, uno di quelli che potevano essere citati da Stranger Things, uno slasher con mostro che come Freddy Krueger e Jason non fa che mietere vittime fino a che non viene trovato da un bambino e da lui aiutato. Una storia che non vuole prendersi sul serio, fatto di spari, sangue e convenzioni del racconto di genere, sotto alla quale la regista Ana Lily Amirpour (che già si era messa in luce con un film di grande allegoria su una donna vampiro in Iran, con il chador a fare da mantello) fa battere il tema politico per antonomasia dei nostri anni. È infatti la storia di una donna, internata per anni della sua vita, un’immigrata che è stata chiusa in un manicomio e che ad un certo punto, senza un vero perché smette di essere un ebete e comincia a controllare le persone con il pensiero, le ferisce e scappa. Le donne si sono svegliate e non hanno intenzione di essere più schiave.
Immagine di apertura: Reflection di Valentyn Vasyanovych.