Agricola Cornelia è un progetto che Gianfranco Baruchello ha portato avanti dal 1973 al 1981, all’interno del quale arte, agricoltura e zootecnica hanno convissuto. Nato con l’occupazione dei terreni agricoli inutilizzati attorno alla casa studio dell’artista, a nord di Roma, si è poi evoluto fino a diventare nel 1998, con la collaborazione di Carla Subrizi, la Fondazione Baruchello, che festeggia i suoi 20 anni di attività con una mostra focalizzata su quella prima attività germinale.
Come società prevalentemente urbana abbiamo spesso una concezione idealizzata della natura. Come ha cambiato la sua percezione della natura questa esperienza?
Dopo l’Agricola Cornelia quello stesso spazio dove erano stati coltivati tanti prodotti e dove mucche e pecore avevano pascolato per anni è diventato un giardino. Consegnavo a questo spazio-giardino il mio stesso cervello, i sentimenti.
Vedersi crescere come erba, come alberi o cespugli era un processo d’identificazione totale: la mente usciva all’esterno e io la osservavo come un testimone silenzioso, ma attento. Poi un ulteriore passaggio: la nascita della Fondazione con Carla Subrizi. Un altro strato si aggiungeva e cambiava tutto: la mia vita e il luogo. La Fondazione con tanti artisti (Pietroiusti, Fantin, Folci, Stalker, Lopez Cuenca, Muntadas, Bruna Esposito e molti altri) e con molti giovani è diventata un luogo per condividere ipotesi, esercizi, riflessioni e tante idee. Tutto come in un flusso di parole e d’incontri. Non abbiamo dato spazio a mostre, ma soprattutto a workshop, archivi, e a una biblioteca.
Come hanno convissuto arte e attività agricola? Può parlarci del ruolo giocato dal caso?
Era proprio questo il punto: passare dall’una all’altra, dall’arte alla vita, spinto dall’idea di mescolare tutti i piani, le contraddizioni, le differenze. Aiutare a partorire un vitello, coltivare un campo a barbabietole, osservare le mucche mangiare diventava il contesto concreto in cui l’arte si poteva interrogare. L’arte era lo strumento per pensare il prodotto artistico accanto al prodotto agricolo, la politica e la natura, l’ambiente e gli anni Settanta in Italia.
C’era una spinta politica nell’andare a vivere in campagna: come trasformare gli anni della militanza (in Potere Operaio) e il dopo Sessantotto, in un nuovo progetto dove arte e politica (dicevo: una società con il solo scopo di “coltivare la terra”) avrebbero potuto sottrarre pezzi di terra alla speculazione edilizia, quindi al mondo piccolo-borghese imprenditoriale che stava devastando la periferia di Roma, per restituirli alla campagna. Era un’utopia probabilmente, ma in parte ha funzionato. Dove oggi c’è la Fondazione ci sarebbero potute essere tante villette a schiera. Il caso era comunque un alleato, da sempre. Senza affidarsi al caso non succede niente di importante. Gli errori che feci, non capendo come si acquistava un gregge di pecore, facendo diventare le barbabietole troppo grandi o capendo che la natura non può essere programmata, mi mettevano alla prova. Il non previsto verificava l’idea che è il possibile il vero interlocutore con il quale fare i conti, giorno per giorno. La dimensione legata alla quotidianità della natura, mette questo alla prova.
Nella pubblicazione Agricola Cornelia S.p.A. 1973-81 spiega un concetto interessante che è poi anche legato al valore e al mercato, che è quello del mutare un ortaggio in ready-made. Ce lo può raccontare?
Sì, certamente. Duchamp, che avevo conosciuto e al quale sono stato molto legato, mi aveva dato il lasciapassare per fare questo esperimento: una società, regolarmente costituita, sul modello della sua Société Anonyme, che poteva permettermi di dichiarare che anche un raccolto di patate poteva essere un’opera d’arte. Non volevo trasformare tutto in arte. Sarebbe stato troppo facile e scontato. Era esattamente il contrario. Era l’arte che doveva mettersi alla prova. Un raccolto di zucchine ha un costo, un suo valore d’uso e di scambio. L’agricoltore pianta una certa quantità di semi che diverranno ortaggi e poi cibo. L’artista disegna, dipinge, qualsiasi cosa faccia lo fa per nutrire se stesso e gli altri (se lo vogliono), ma il costo, non appena ciò che fa entra nel mercato, lievita, diventa pura merce e di quel nutrimento si perdono le tracce. Il confronto tra prodotto agricolo e prodotto artistico era una provocazione rivolta alla critica troppo impegnata a costruire strategie, al mercato, al sistema dell’arte che è un gigantesco mondo di affari e successo a pagamento.
Come è stata recepita l’esperienza di Agricola Cornelia dal mondo dell’arte e della cultura al tempo in cui lei la praticò e quale eredita crede abbia lasciato dopo?
Le mostre di quegli anni toccavano tanti aspetti che erano affrontati con Agricola Cornelia. Ma dalle mostre Agricola Cornelia restava fuori. Le gallerie volevano le opere e io invece immaginavo una mostra possibile su tale esperienza come un grande archivio. In parte la mostra alla Galleria Milano aveva questo sapore ma non la vide quasi nessuno.
Come si è evoluta quest’esperienza da esperimento di vita agreste a fondazione?
Dalle patate alle idee, dalla coltivazione di ortaggi alla coltivazione di situazioni o occasioni: questo è stato il passaggio. La Fondazione è nata nel 1998, ma sugli stessi terreni e spazi dove Agricola Cornelia aveva lavorato. Quel territorio a nord di Roma, in aperta campagna, un po’ dimenticato dal Comune di Roma, ha permesso a me e a Carla Subrizi (presidente della Fondazione, io sono oramai un emerito) di ripensare gli spazi, interrogandoci su cosa alla fine degli anni Novanta poteva essere importante fare: un grande luogo di scambio, per pensare insieme, per fare ricerca e sostenere i giovani artisti anche con progetti formativi così come hanno fatto i nostri lunghissimi seminari dopo i quali tanti sono diventati curatori, artisti, editori.
Alla luce delle problematiche ambientali e dei dibattiti sulla sostenibilità e sullo sfruttamento del pianeta, oggi un’esperienza come questa avrebbe ancora senso?
Forse sì, forse no. Oggi c’è bisogno di molto di più credo. Anche il modo di fare o pensare la politica, un impegno in politica, sono cambiati. Oggi il paesaggio da curare è soprattutto quello mentale, quello che ogni giorno costruiamo con il linguaggio, fatto di parole e di cose. Mentale nel senso complesso di tutto ciò che convive e costruisce il modo di essere e sentire, sentirsi nel mondo: paesaggi interiori e paesaggi mentali, immaginari sull’orlo di una crisi. L’arte continua a essere uno strumento essenziale quando nasce dal desiderio di capire. La Fondazione s’interroga proprio ora su ciò che sia oggi necessario. Non sono tempi facili ma come abbiamo fatto fino ad ora, le idee non ci mancano. Quello che era partito dal territorio del singolo è necessariamente diventato altro. Oggi il proposito è far continuare a vivere quell’esperimento in forma collettiva. Facciamo finta che questo sia possibile in Italia e nella situazione politica non solo italiana, ma mondiale.
- Titolo:
- AGRICOLA CORNELIA S.p.A. Sulla coltivazione di un luogo ideale
- Date di apertura:
- 11 dicembre - 8 febbraio 2019
- Sede:
- Fondazione Baruchello, Via del Vascello 35, Roma
- Curatrici:
- Maria Alicata e Daniela Zanoletti