A Berlino, “Expand Extract Repent Repeat” è attualmente la mostra più completa, in Europa, dedicata a valorizzare la pratica scultorea, fotografica e installativa di Nida Sinnokrot. Concepito come una sintesi antologica, il percorso negli spazi di carlier | gebaurer offre il suo benvenuto al lavoro di Sinnokrot senza avere alcuna intenzione di ricondurre strettamente le origini dell’artista al contesto della Palestina contemporanea. La mostra, infatti, non si focalizza sulla rilettura di nessuna identità nazionale, ma esamina, invece quanto strutture sociali, ambientali, politiche ed economiche acquistino un ruolo di rilievo attraverso categorie che oltrepassano il senso di risalita verso le origini.
Il monumentale e dissezionato container, dal titolo Jonah’s Whale (2014), compare quasi del tutto inaspettato, come un’enorme gabbia toracica metallica, suddivisa in undici sezioni che mostrano strati ready-made di acciaio, gesso, isolamenti, cavi, tappeti e anche materassi. In relazione alle tribù migranti, questa struttura alterata suscita domande sulla permanenza, sulle tradizioni nomadiche e sui confini territoriali. Un container da spedizioni che si trasforma in una sorta di insediamento può affrontare il delicato percorso verso la stanzialità, ma così frazionato mette in luce il potenziale fragile di un nuovo ingresso, del tutto transitorio, nel paesaggio. Questo container, nettamente modificato e precluso al territorio, aperto come una serie di veneziane, intrappola l’ombra su se stesso e la allunga anche sulle rocce circostanti, diventando uno strumento che plasma la luce, in modi inaspettati, proprio come testimoniano le foto del lavoro installato in esterno. In questo processo di riproduzione fotografica le logorate, abusate distinzioni tra interno ed esterno perdono valore.
In riferimento alle origini del debito e segnando un coraggioso contributo alla storia del ready-made, Jonah’s Whale, il container una volta usato come abitazione-caravan israeliana e in seguito riproposto come ufficio in semi-costruzione palestinese, si eleva in undici sezioni incolonnate, accuratamente tagliate a mano, formulando un complesso palinsesto del potere e della compravendita. La struttura colpisce per lo smorzato, logoro terrore emanato da una propria estetica architettonica.
I tagli che porta su di sé non sono quelli inferti dalla mano furiosa di un uomo, eppure rivelano un certo grado di violenza incontrollabile, ricordando, piuttosto, il lavoro di un chirurgo ossessionato, in cerca della causa del male umano; oppure quello di un archeologo che esamina con attenzione la salma pietrificata di una creatura che deve essere ancora catalogata.
Con Jonah’s Whale e con la corrispettiva serie fotografica Caravan, in nome di entrambe le pratiche di scambio dell’antico Medio Oriente e le attuali unità domestiche pre-fabbricate, Sinnokrot mostra un simbolo trans-nazionale del mercato globale come metafora culturale di un contesto legato al proprio territorio d’appartenenza. Infine, stratificata con la storia e la patina del tempo, la struttura rimane iscritta all’interno delle tracce del proprio viaggio, da container a caravan per ufficio temporaneo, aprendosi ad uno sguardo sincopato.
Dal momento in cui Sinnokrot ha iniziato a sperimentare, quasi due decenni fa, le sue ricerche sui fantasmi dello sguardo (Untitled Shutter, 1999) sono state caratterizzate dal raffinato senso dell’artista per le distinzioni estetiche. Tale sensibilità risulta infatti il motivo per il quale questi lavori prendono vita: un giudizio intuitivo che rende le varie componenti non più la semplice somma di singole parti.
Come gli oggetti parlano tra di loro (e con i loro precedenti possessori) attraverso lo spazio e il tempo è la questione che collega entrambe le sfere: quella profana (politica, economia, di direzione artistica e di presentazione dell’oggetto in sé) e quella sacra (tradizioni, rituali, vaticini e trascendenze). Mentre Sinnokrot prende in prestito codici da entrambi questi emisferi del pensiero, la sua ultima mostra restituisce un linguaggio potente e in pieno comando delle misure attivate dall’assenza e dall’analogia.
Di fronte a Jonah’s Whale, lcome in una sorta di rango militare, la serie di Rubber-Coated Rock, All-Stars 02 (2015) evoca enormi proiettili ricoperti di gomma, questi oggetti nominati sardonicamente nascondo la traccia di un tragico sbilanciamento di potere. Il loro peso ricorda un dialogo formale tra la natura trovata alla mano e la natura trasformata dalla tecnologia. Costituiti da detriti, pietre, palloni abbandonati e lacci raccolti a Gerusalemme, una soglia di possibilità emerge come se questi potenziali proiettili diventassero curiosamente antropomorfi poco prima del loro impatto. Messi in bilico sulla cima di ostensori fatti a mano, in metallo, la serie di piedistalli che espone i lavori sottolinea tensione e sospensione, mentre i loro ritratti altamente stilizzati si presentano come una referenza insolita e toccante di una produzione iconografica del martirio.
Un altro lavoro dalle proporzioni estese è Ya Ghanamati (Billboard no. 02), un cartellone di 6 metri di lunghezza con un meccanismo che apre e chiude una serie di lamelle in alluminio. Realizzato nel 2014, il cartellone è parzialmente ricoperto di pelle di capra distesa al di sotto della superficie metallica riflettente. Anche questo lavoro rappresenta un emblema dei meccanismi del debito commerciale. I cartelloni sono strumenti che servono a proiettare i sogni e a promettere soddisfazione, attraversando la società dei consumi. Comunque Sinnokrot tragga vantaggio da questo strumento, per invocare un desiderio molto basico, comunque ispira una sorta di nostalgia. Le superfici costantemente rotanti di alluminio lucidato e di pelle di capra instaurano uno stato di sparizione e di comparizione che ci spinge a considerare i nostri più nascosti desideri all’interno dell’attuale paesaggio consumistico.
Ascoltando i suoni vuoti delle pagine che ruotano, attivate, amplificate da Exquisite Rotation (2015, 2016), i riflessi dorati di Rawabi (2013, 2014) accompagnano la figura astratta, la metonimia di un bulldozer con le pale d’oro; denti montati su una mascella animale che risalta, in pieno contrasto, con un paesaggio d’origine, arso e ritrovato dell’immaginazione; mascella che rievoca la perversione di un giuramento futuro e quindi la promessa del saldo di ogni debito, racchiusa alle spalle di un sorriso perfetto.
La sovrapposizione di una storia su un’altra storia giace al cuore della fascinazione di Sinnokrot per la materialità degli oggetti. Una modalità di sopravvivenza, nella quale le forme persistono seguendo il loro dispiegamento nello spazio, copiandosi, replicandosi e traducendosi. Questo spiega anche come la sua attività di documentazione sui vari relitti recuperati, in esterno o in spazi privati, sia perfettamente centrata con la sua idea di natura morta. Sinnokrot utilizza costruzioni trans-mediali non solo per materializzare visioni, ma anche quali lento metodo di raccolta.
Un’analoga lentezza entra in sintonia con il risiedere tematico di complesse sedimentazioni del tempo: che sono messe a confronto sia con l’immediatezza a perdere della riproduzione digitale sia con la logica della gratificazione nervosa, intrinseca ai feed verticali di internet. Nel complesso, Sinnokrot non sta necessariamente lavorando contro la consistenza della nostra condizione contemporanea ma ne sta fornendo solo un’immagine, dato che, come ognuno di noi, si trova immerso in essa.
- Titolo mostra:
- Nida Sinnokrot. Expand Extract Repent Repeat
- Date di apertura:
- Dal 24 novembre 2018 al 19 gennaio 2019
- Sede:
- carlier | gebauer
- Indirizzo:
- Markgrafenstraße 67, D-10969 Berlino