Se vogliamo pensare a un film riuscito di questa stagione cinematografica, pensiamo a Tonya. È impossibile rimanere indifferenti, perché Tonya è divertente, disturbante, commovente, scioccante. Per due ore siamo tutti lei: Tonya Harding, pattinatrice che nel 1991 vince i campionati nazionali statunitensi eseguendo, prima americana di sempre in una competizione, un salto triplo axel e che nel 1994, appena prima dei Giochi Olimpici di Lillehammer, risulta coinvolta nella gambizzazione della diretta rivale Nancy Kerrigan.
Tonya: biopic di un antieroe nella provincia americana
Il sottofondo del film di Craig Gillespie è un’America periferica immersa negli anni Ottanta che sembrano i Settanta, mai al passo con i tempi e solo con se stessa.
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- Gabriele Scotti
- 07 maggio 2018
Dietro alle vicende sportive della Harding c’è una vita dura, a tratti tremenda. Una madre abusante (LaVona, interpretata da Allison Janney, premio Oscar proprio in questo ruolo), che avvia al pattinaggio Margot, unica figlia avuta dal quarto di cinque mariti, a suon di coercizione e botte (“Sei un mostro. Fattene una ragione bambina”). A stretto giro, arriva un marito che è letteralmente “il primo che passa di lì” e che, nel tempo, si rivela violento e ossessivo. La povertà, l’ignoranza forzata, la totale mancanza di grazia. Ancora bambina, Tonya spara col fucile e, da adolescente, lavora in una carrozzeria dove aggiusta macchine e guida un muletto. Con gli anni, asmatica e fumatrice, diventa un’atleta eccellente. Le manca però quello che il pattinaggio richiede: un bel viso, una bella famiglia tradizionale americana, eleganza. “Non sei l’immagine che vogliamo per questo sport”. Outcastper sempre.
Quando l’attrice protagonista Margot Robbie, che è anche produttrice, ha letto la sceneggiatura, pensava fosse un brillante film di finzione. E invece no: è tutto vero. Tonya è un biopicche restituisce una versione ovviamente parziale della vicenda sportiva e penale di Tonya Harding, ma che è costruito fedelmente su videointerviste e dichiarazioni dei personaggi reali. È molto divertente, dopo la visione, cercare su Youtube i filmati di scene vere della vicenda (gare, interviste, i costumi delle esibizioni…) per godersi come siano state ricostruite con cura certosina. Ed è subito un tuffo nella provincia americana degli anni Ottanta e Novanta.
La provincia continua a essere la culla delle storie più interessanti di questa stagione di cinema americano. Sacramento in Lady Bird,Tre manifesti a Ebbing – Missouri, le periferie alle porte di Disneyland in The Florida Project. In Tonya c’è Portland, Oregon, il nord del nord, dove gli sport su ghiaccio sono naturali come il calcio in Brasile. È un’America periferica immersa negli anni Ottanta che sembrano i Settanta, mai al passo con i tempi e solo con se stessa. Bellissimi gli interni per le interviste che scandiscono il racconto: tappezzerie e sofà sui toni del beige e dell’ocra in abbinamento a una pelliccia spelacchiata (LaVona), fantasie floreali alle pareti pendantcon l’atroce camicetta (l’allenatrice), una cucina dalle linee anni Sessanta perché la capigliatura potrà anche essere un attuale frisé, ma la cucina non si rifà da decenni. Colori spesso in accordo con gli esterni autunnali alberati e boschivi.
Un’atmosfera shabby più vera del vero, tipica del cinema indipendente americano spesso abile nel restituire in modo stiloso la semplicità degli ambienti in cui colloca le sue storie, con la mente che va a Grey Gardens, il documentario culto su Edith Ewing Bouvier Beale e Edith Bouvier Beale, rispettivamente zia e cugina di Jacqueline Kennedy Onassis, sofisticate signore dell’alta società recluse in una fatiscente magione degli Hamptons, tra pellicce malandate e foulard annodati.
Il film chiama in causa altri precedenti biopicdel recente passato, come Marylin con Michelle Williams, Jackiecon Natalie Portman, The Iron Lady su Margaret Thatcher con Meryl Streep, The Queensulla Regina Elisabetta con Helen Mirren. Il biopicè una prova d’attore importante, soprattutto quando tratta personaggi pubblici o addirittura iconici, tali da rendere necessario uno sforzo mimetico evidente, nella riproduzione dell’accento, della cadenza, dei movimenti. In questo caso, Tonya Harding non è così conosciuta al pubblico e questo lascia libera Margot Robbie di rimanere bellissima nell’aspetto senza la pretesa di proporre una fotocopia del personaggio reale, captandone però i caratteri di forza, ineleganza, rabbia, per ricucirli sulla propria pelle.
La cura che si riscontra nel sete costume design e nella recitazione permea il film in ogni suo aspetto. Il montaggio è coinvolgente, portatore ora di pathosora di comicità. La regia sembra ispirarsi al pattinaggio sul ghiaccio con carrelli continui, sinuosi, lunghi, come se la stessa macchina da presa pattinasse, non solo nelle scene sportive ma in ogni scena, quasi a rendere il figure skating onnipresente, giorno per giorno, nella vita della protagonista, una giovane ragazza per cui il pattinaggio è tutto, l’unica cosa che sa fare e senza cui sarà perduta, finendo a pagare i debiti con la giustizia reinventandosi boxeur. La macchina da presa ci porta a pattinare nelle piaghe di uno scandalo sportivo a tinte forti e nella vita di un’antieroina che ha vinto una sola volta e forse nemmeno quella.
- I, Tonya
- Craig Gillespie
- USA
- 2017
- Clubhouse Pictures (II), LuckyChap Entertainment