Un incontro con Amalia Del Ponte (artista milanese nata nel 1936) è un’esperienza epifanica già a partire dalla soglia dell’edificio, dietro a un piccolo portoncino si apre un antico cortiletto milanese su cui si affacciano le vetrate del suo studio. L’artista sta lavorando a una scultura il cui progetto è stato approvato dal Comune di Milano per essere collocato nello spazio pubblico.
Il tema della luce rientra tra gli elementi indagati dall’artista durante la sua ricerca, che la vede da tempo impegnata in sperimentazioni e studi su rifrazione e riflessione (sono noti i suoi Tropi in plexiglass realizzati a partire dalla metà degli anni Sessanta) per arrivare addirittura al suono (con la realizzazione delle pietre sonore), in una sorta di volontà di smaterializzazione della scultura: “Cercavo di togliere la pesantezza e la staticità della scultura per renderla più dinamica”.
In questi anni il suo lavoro sta conoscendo un momento di storicizzazione, si è forse arrivati ad averne la giusta distanza storica per poterlo guardare a posteriori e collocarlo all’interno di un contesto preciso che include le sperimentazioni artistiche nate negli anni Sessanta, soprattutto quelle di area europea particolarmente interessate ai fenomeni di percezione visiva, ma in qualche misura anche quelle minimaliste d’oltreoceano, impossibile non notare la sua predilezione per le forme geometriche, non a caso racconta che: “Nel 1967 [quando il suo percorso era comunque già ben caratterizzato – ndr] negli Stati Uniti (a Los Angeles) visitai la mostra ‘Sculpture of the Sixties’ e fui colpita dalle opere di Judd, Morris, Flavin”.
Nel panorama italiano a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta nacquero il Gruppo T (fondato a Milano nel 1959) e il Gruppo N (fondato sempre nel 1959 ma a Padova) ed è curioso pensare che, pur lavorando nella stessa area geografica su tematiche simili, Amalia Del Ponte non abbia mai fatto parte di nessuno di questi: “Una specie di ansia di essere libera mi ha fatto fare questa scelta, credo sia un fatto di temperamento”, spiega. Questo stesso bisogno di libertà l’ha portata a non legarsi al mercato: “Ho rifiutato la strada delle gallerie e lo rifarei, con il rovescio della medaglia. Al contratto con la galleria ho preferito lavorare come designer”. Sono nati in questo modo i progetti di architettura d’interni di negozi come Gulp!! e Fiorucci (tra gli altri): “Per Fiorucci ho svuotato lo spazio trasformandolo in un ambiente minimalista e ho forato le solette per vedere sotto, un’operazione impensabile a quei tempi”.
Per un periodo poi Amalia Del Ponte ha condiviso lo studio con DDL (De Pas, D’Urbino, Lomazzi): “Non era per lavorare insieme, anche se insieme abbiamo sviluppato qualche progetto come la Cappella Zanotta a Lanzo d’Intelvi in provincia di Como. Ricordo che Lomazzi si aspettava un’idea da realizzare in pietra, invece quando feci vedere a Zanotta un acquerello (che fu il bozzetto di partenza) si commosse e realizzammo una grande vetrata piombata che riproduce le pennellate orizzontali di quel disegno”. Progetti a cavallo tra l’architettura e il design ne ha sviluppati molti, tra questi anche quello per Villa Bocca a Torino, ma la creazione di ambienti ha fatto parte anche della sua ricerca artistica: nel 1973 infatti vince il Premio Internazionale per la Scultura alla Biennale di San Paolo con l’opera Area percettiva, un ambiente bianco con elementi riflettenti dall’effetto disorientante, mentre tra i lavori più recenti c’è quello sviluppato nel 2010 dentro alle quattro casematte abbandonate sull’Isola della Certosa a Venezia, dal titolo Il regno dei possibili, invisibili, in cui all’interno delle quattro strutture, l’artista, attraverso dei video posizionati sotto a degli oblò a pavimento, permetteva di vedere (e di sentire) l’infinitesimale: la minuscola flora e fauna marina della laguna, ma anche le forme geometrico-matematiche astratte prodotte della mente umana.