“Black light, white light”, la mostra di Michel Comte alla Triennale di Milano, sembra immersa nel buio di una notte serena, come illuminata dalla luna. Dietro una cortina reticolata si scorge il pezzo centrale dell’installazione, un dosso di ghiaccio che galleggia su uno specchio d’acqua contornato da una costellazione di piccoli iceberg. In una dozzina di giorni ha già perso buona parte della sua consistenza, trasformandosi in acqua, ovvero ciò che inevitabilmente rimarrà quando la mostra chiuderà i battenti il 1 gennaio.
Da circa 10 anni, è qui che si concentrano gli sforzi di Comte – fotografo nato a Zurigo nel 1954, meglio noto per il suo lavoro nella moda e ritrattista eccellente a cui la Triennale aveva già dedicato una personale nel 2011 –, attorno al tema della desertificazione e dello scioglimento dei ghiacciai. Ma tutto comincia molto tempo addietro. C’è una traccia nella storia di famiglia: il nonno Alfred, fu un pioniere dell’aviazione che, dopo aver attraversato la Svizzera in estate all’inizio del secolo scorso, rincasò con le fotografie aeree delle cime innevate: “Erano completamente bianche, allora” ricorda il fotografo. “Oggi persino sul Kilimangiaro c’è la neve solo pochi giorni l’anno mentre la parete ovest del K2 appare completamente nera”.
Appassionato scalatore, Comte è tornato più volte sulle stesse montagne, collezionando scatti di paesaggi mirabili, dettagli scintillanti nei luoghi più remoti e inaccessibili del globo, ma raccogliendo anche le prove della devastazione in corso a causa del cambiamento climatico: “La letteratura scientifica classica sostiene che i ghiacciai si ritirino 30 cm all’anno. Non è più così: senza andare lontano, basta salire sul Roseg, vicino a Sankt Moritz, per vedere dove arrivava il ghiaccio solo un anno fa, ci sono dei marcatori: è arretrato di 4 chilometri”. Questo lavoro di documentazione è racchiuso in un libro di grande fascino intitolato Light, stampato a maggio dalla casa editrice Steidl, che fa da propedeutica a un progetto espositivo multimediale in divenire iniziato al MAXXI di Roma a novembre e che proseguirà, dopo la tappa milanese, a Hong Kong, a Pechino e nel deserto del Mojave con una monumentale intervento site-specific ispirato all’“arte della terra”. Non è un caso che il fotografo abbia scelto proprio il deserto del Nevada, dove ebbe appunto inizio la vicenda della Land art e laddove si trovava alla fine degli anni Sessanta, mentre l’artista Michael Heizer costruiva la sua opera più nota, un’enorme fenditura nella terra chiamata Double negative. Allora sembrò una specie di ribellione all’egemonia delle gallerie: quei lavori scolpiti nel ventre della natura non si potevano appendere alla parete sopra al divano. Era inoltre il periodo in cui i movimenti ecologisti prendevano un’impronta sociale, diventando per la prima volta d’interesse della società civile.
In Triennale, Michel Comte allestisce con rigorosa eleganza immagini di erosioni e distribuisce i detriti raccolti lungo il percorso accanto a massicci in miniatura forgiati nel vetro, ma prescinde da questioni di realismo o estetismo, e per la verità parrebbe che la mostra non pretenda di essere altro che il significante di un messaggio urgente: “È il tentativo di raccontare in modo simbolico quel che sta accadendo. Non si tratta di mettere un pezzo di ghiaccio in un museo, ma di portare le persone a capire”. Per questo ha destato l’interesse del WWF che ha deciso di sposare il progetto esattamente nel momento in cui lanciava la propria campagna pre-natalizia “Planet is calling”, un monito in chiusura dell’annus horribilis che ha visto affastellarsi alluvioni, uragani, riduzioni accelerate delle banchise polari e delle nevi perenni in montagna, la perdita di barriere coralline e altri fenomeni irreversibili i cui effetti trascinano crisi umanitarie e grandi migrazioni.
Ma se Comte appare solo ora come un artista militante, va detto che la sua intuizione è stata precoce. Nel 1975 dedicò la propria tesi di laurea al tema dei limiti della crescita con la dissertazione “L’acqua è l’olio del futuro”, in ragione della quale venne invitato a The Club of Rome (ONG che si occupa di materie ambientali), davanti ai membri dell’OPEC, per esporre una questione che all’epoca era lungi dall’essere considerata preoccupante, poiché l’acqua veniva ritenuta una risorsa indeperibile. Ma nel 1986, durante un lungo viaggio in Tibet, il fotografo s’imbatté nel monastero di Kumbum in un gruppo di scienziati cinesi. “Dissero che non erano lì per il Dalai Lama, né per la religione, il loro unico interesse era l’acqua: sostenevano che entro il 2020 la Cina avrebbe avuto un problema idrico – effettivamente è quel che sta accadendo – e l’altopiano tibetano rappresentava per il loro Paese la riserva d’acqua del futuro”.
Comte riferisce di essere “andato ovunque” per tentare di mettere in mostra il proprio progetto, poster di una consapevolezza acquisita prima di molti altri, ma solo quest’anno qualcosa è cambiato, complice forse la decisione di Donald Trump di chiamarsi fuori dagli accordi di Parigi, fatto che ha contribuito a portare il dibattito al centro della scena mediatica. Una scena, questa, molto diversa da quella in cui eravamo abituati a collocare il fotografo, facilmente associato all’empireo rarefatto delle celebrità che il suo obiettivo ha passato in rassegna, mentre parallelamente dedicava il resto del tempo a spedizioni in zone di conflitto per la Croce Rossa o Amnesty International. “Ho perso il conto della quantità di cime che scalate e delle ore passate aggrappato a un elicottero con il portellone aperto e la macchina fotografica in mano” racconta. “Può sembrare molto glamour, ma non lo è affatto, è quasi come andare in guerra”. Nel buio quieto della stanza, in Triennale si percepisce appena il suono del ghiaccio quando si dissolve nella vasca, Comte lo paragona al pianto delle balene. Ma ha fiducia nella coscienza delle persone e nelle nuove tecnologie e nel fatto che, anche se non si può tornare indietro, si potrà fare qualcosa per migliorare.
- Titolo mostra:
- Michel Comte. Black light, white light
- Date di apertura:
- 28 novembre 2017 – 1 gennaio 2018
- Curatore:
- Jens Remes
- Sede:
- Triennale di Milano
- Indirizzo:
- viale Alemagna 6, Milano