A dirla infatti con le parole di un gruppo di attivisti greci (Artists against eviction), sancite nella lettera aperta ai lavoratori e spettatori di Documenta pubblicata da e-flux, “è questo il tempo di ritagliare uno spazio per tutti, non quello di un processo di archiviazione culturale della crisi”. In effetti, è abbastanza evidente che l’archivio o la sua rappresentazione, abbia in questa mostra un ruolo molto importante messo in luce da molteplici riesumazioni storiche che funzionano, nella maggior parte dei casi, come veri e propri riferimenti dello sviluppo narrativo della mostra. Nella Scuola di Atene ad esempio, una delle sedi a mio avviso più intriganti, la dimensione dell’apprendimento e dei processi di esperienza collettiva, si declina in diversi tempi e modalità, facendo soprattutto ricorso a documentazioni storiche. Il bellissimo Experiments in the Enviroment (1969) di Lawrence e Anna Halprin, restituisce in forma di foto e documenti, le tappe di un workshop di ventiquattro giorni costruito con una comunità di architetti, danzatori e artisti, allo scopo di ritrovare forme di interazione con il paesaggio a partire dall’ambiente urbanizzato di San Francisco fino alla natura selvaggia della costa nord californiana.
L’acropoli è in effetti l’elemento visivo più forte, la si scorge molto spesso da diversi punti della città. De Lillo ne parla come di una “rocca tetra, un marmo abbronzato a cavallo della sua massa di scisto e calcare” (I nomi, ed. Einaudi, 2004). È ciò che banalmente tiene insieme, nel limite del campo visivo, la nascita dell’Occidente, lo splendore del classicismo e al tempo stesso il crollo della propria mitologia, a cui si fatica credere. Il mito di una democrazia piegata e messa a dura prova, che Documenta sembra voler considerare come punto di partenza anche nella sua evidente vulnerabilità. In Avdi Square, nel quartiere operaio di Metaxourgeio, parte di uno dei tanti reticoli urbani esplorati da Documenta, Sanya Ivekovic riprende il Monumento alla Rivoluzione che Mies van der Rohe dedica a Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht. Un palcoscenico pubblico di volta in volta attivato e agito con il supporto di diverse persone, parte di movimenti internazionali impegnati nella lotta per i diritti delle donne e del lavoro.
Attivazioni attraverso il corpo, sintesi di gesto e di suono come possibile forma di dissidenza, sono disseminate dentro e fuori gli spazi istituzionali del percorso della mostra. Il Museo del Pireo che raccoglie rari pezzi dell’antica Grecia, si offre come location per la messa in scena di “Collective Exhibition for a single body” proposta e ideata da Pierre Bal-Blanc, fra i curatori più presenti di questa Documenta.
Il Museo di Arte Contemporanea invece, che ha riaperto ufficialmente per questa occasione (ma la domanda è: resterà aperto anche dopo che Documenta lascerà la città?), dedica un intero piano ai suoni sintetizzati dalla ricerca del compositore russo Arsney Avraamov. Uno dei personaggi più avventurosi del suo tempo, imprigionato per propaganda bolscevica, scappò in Norvegia con una nave cargo e nel 1914 sviluppò la teoria della musica tonale e ultra-cromatica, inventando strumenti per riprodurla.
Verso questa traiettoria, si spinge anche il Conservatorio, splendido edificio razionalista di fine anni ‘50, dove la chiave di volta è affidata alla figura del compositore greco modernista Jani Christou, la cui opera Epicycle ruota attorno a un’idea di “continuum” in cui si abbattono i confini fra i media. Epicycle è rappresentato sotto forma di grafici e sequenze, diventando la cornice concettuale entro cui si inseriscono altri interventi: dagli strumenti realizzati con oggetti riciclati dai campi profughi di Kassel di Guillermo Galindo a quelli più scultorei e utopistici ricavati da mobili di varia provenienza di Nevin Aladağ, spesso suonati dal vivo in azioni programmate durante il giorno. Al Benaki Museum, più spazio è dato alla pittura che anche qui, come nella maggior parte dei percorsi storici della mostra, svolge la funzione di documentazione. Una delle stanze più suggestive è quella dedicata alla figura di Tshibumba Kanda Matulu, artista congolese scomparso nell’ ‘81, probabilmente rimasto ucciso, i cui meravigliosi quadri mimano scene di vita del lavoro, contadina e operaia, nonché le torture a danno di vittime innocenti della storia recente del Congo.
Tuttavia, nonostante la storia venga spesso in aiuto al presente per favorirne una comprensione più lucida e una messa in discussione, quella di Documenta non è certamente una scelta generosa in termini di comprensibilità e reale capacità di coinvolgimento. Lo si evince anche dai materiali stampati e dalla comunicazione, spesso criptica e di difficile decifrazione, che in una mostra pensata come momento di ricognizione collettiva aperta all’ “insegnamento” di una città, non trova un suo corrispondente altrettanto efficace nel percorso espositivo. “Learning from Athens” dunque, è un mantra che viene costantemente messo in dubbio, soprattutto da chi la città la vive ogni giorno da sempre e si chiede piuttosto che cosa dovrebbe “imparare da Documenta”.
Migliaia di profughi coesistono qui insieme ad attivisti, artisti e operatori culturali, in case e alberghi occupati, centri di accoglienza anarchici, al costante cospetto delle istituzioni che minacciano lo sfratto a ogni occasione. Nessuno di questi spazi, è inserito nel percorso espositivo di Documenta, perché illegale. È evidente che il problema è politico, non certo curatoriale. In Grecia, come in Europa del resto, gli eventi politici che dovrebbero dar forma al nostro futuro sono ancora molto nebulosi e poco rassicuranti, e vanno verso una direzione che di sicuro non predilige l’ospitalità per favorire benessere sociale. Ma questo è senza dubbio il dato che il team curatoriale di Documenta ha considerato, determinando i termini e i confini di una ricerca sul territorio che, apparentemente, stenta ancora a essere realmente compreso.