Il MONA è noto in Australia come uno dei musei più interessanti del paese, che fa di Hobart un centro culturale in grado di competere con qualunque città del continente. È situato su un ampio terreno che si affaccia sul fiume Derwent. Una facciata a specchio quasi invisibile dà accesso a un’ampia e labirintica rete di sale e gallerie di 6.000 metri quadrati, interamente scavata nell’arenaria grezza e rinforzata con acciaio e calcestruzzo. L’insieme del museo comprende anche vari piani, un ristorante, aree per i servizi, un vigneto e altri spazi.
Philippa Nicole Barr: Come usi il sito? Scegli dei musicisti che secondo te sono adatti al sito, al luogo e all’ambiente locale? Quest’ultimo ha un’influenza sulle tue scelte e sulle tue decisioni?
Brian Ritchie: Be’, dato che nel museo non ci sono spazi – né ordinari né specializzati – per le performance musicali, c’è una forte componente di improvvisazione anche in termini di programmazione, e, sì, l’acustica di cui disponiamo è un elemento importante: in certi casi è decisamente inconsueta. Certe volte cerchiamo solo di usare al meglio ciò che abbiamo, per esempio abbiamo complessi relativamente convenzionali come un quartetto d’archi o cose del genere in uno spazio che di solito non sarebbe adatto ad accoglierli, ma altre volte scegliamo esibizioni specifiche perché mi pare che possano funzionare negli ambienti di cui disponiamo, e sono parecchie. Come vedi nel caso di questo festival abbiamo spazi per un pubblico di due o tre persone, oppure usiamo come spazi per il pubblico gli ascensori.
Philippa Nicole Barr: Ho assistito a una cosa del genere…
Brian Ritchie: Abbiamo tre ascensori che spesso usiamo come spazi per le esibizioni. Abbiamo il Turrell Stage, un’installazione panoramica che qualche volta abbiamo usato come palcoscenico, usiamo come spazio espositivo la sala delle botti, per questo festival e anche in altre occasioni per esecuzioni musicali più convenzionali, ed è proprio il posto dove si conservano le botti del vino. Usiamo la cantina come spazio espositivo, la attrezziamo con container. Facciamo ogni genere di cose diverse e il filo conduttore è il tentativo di accordare la performance allo spazio. Oppure talvolta semplicemente conosciamo un performer con cui vorremmo lavorare e facciamo succedere qualcosa.
Philippa Nicole Barr: Fammi un esempio di come sono andate le cose…
Brian Ritchie: Per esempio quel che è successo in questo festival per lo “strumento a corde lungo” di Ellen Fullman: a causa della lunghezza dello strumento potevamo sistemarlo in due spazi, cioè il Void, che è un lungo corridoio di pietra, oppure la Nolan Gallery, che ha il pavimento di legno. Decidemmo di sistemarlo nella Nolan Gallery perché il legno ha un’acustica migliore. Fulmann è una persona con cui volevamo lavorare da anni, ma non avevamo mai lo spazio giusto. E alla fine abbiamo detto “Bene, in un modo o nell’altro questa cosa la faremo”, e l’abbiamo sistemata nell’unico luogo in cui potevamo davvero collocarla.
Philippa Nicole Barr: È particolarmente difficile, dal punto di vista logistico, organizzare un festival come questo fuori del continente australiano, in un’isola così decentrata come la Tasmania, per esempio far arrivare qui attrezzature e impianti, e trovare utensili particolari?
Brian Ritchie: Ci sono tanti problemi logistici sotto questo aspetto, perché in Tasmania c’è un solo esemplare di qualunque cosa, e quindi se ci servivano due mixer dovevamo rivolgerci altrove per trovarne uno.
Philippa Nicole Barr: Credi che la distanza dal continente australiano influisca in qualche modo sull’atmosfera del festival e sul comportamento di chi vi si esibisce, su un promontorio isolato spazzato dai venti come questo?
Brian Ritchie: Probabilmente c’è una specie di continuo superamento delle aspettative, un po’ come se non ci si aspettasse che una cosa come questa accadesse qui. Per esempio abbiamo avuto Pantha du Prince, un grande artista del suono tedesco, che lavora per il mondo del commercio come in quello dell’arte, e ha appunto dichiarato che non pensava che esistesse nulla di simile in Europa. Ma attribuiva la cosa alla forma mentale più che alla disponibilità di talenti.
Philippa Nicole Barr: Quale forma mentale?
Brian Ritchie: Be’, il festival è concepito in modo da mettere in primo piano l’individuo, di solito singoli artisti oppure gruppi condotti da un individuo di forte personalità, dotato di una prospettiva d’avanguardia: non è questione di genere, non è un festival rock o un festival dedicato a un certo genere. È un festival musicale che mette in rilievo processi e risultati inconsueti, per cui non è commerciale e va davvero controcorrente, perché anche i festival dedicati, diciamo, alla musica classica contemporanea oppure al jazz in un certo senso sono commerciali, perché servono da strumento di mercato per qualcosa. Questo festival è molto più ampio, cambia ogni anno, deve cambiare ogni anno. È costruito sulla nostra forma mentale: non diventare ripetitivi. Non vogliamo che il pubblico arrivi e dica “È la stessa cosa dell’anno scorso”.
Philippa Nicole Barr: Il che porta a riunire gruppi di musicisti estremamente imprevedibili e in certo qual modo casuali. Tenti di tenerli insieme intorno a un qualche filo conduttore curatoriale oppure lasci semplicemente che le cose accadano?
Brian Ritchie: Ci sono sempre alcuni fili conduttori che non svelo a nessuno. Di solito le persone li scoprono da sole, ma se non ci riescono va bene lo stesso perché so che in certo qual modo questo tiene insieme le cose. Ma di solito ce n’è più d’uno.
Philippa Nicole Barr: Per esempio?
Brian Ritchie: Per esempio quest’anno uno dei temi è la costruzione di dispositivi primitivi e di musica elettronica d’epoca. E abbiamo avuto dei theremin, le collezioni di sintetizzatori d’epoca di Robin Fox e di Byron, Kaitlyn Aurelia Smith.
Philippa Nicole Barr: In programma c’erano anche esibizioni di Daphne Oram…
Brian Ritchie: Sì. Quindi abbiamo tutte queste cose, nel comunicato stampa non diciamo nulla, ma ci sono. E poi un tema collegato, che acquista un senso vero solo se si rifà a quel tema, un gruppo di strumenti acustici che suonano come strumenti elettronici, come lo “strumento a corda lungo” di Ellen Fullman, i gruppi che lavorano sugli ipertoni, le barre metalliche che risuonano come onde sinusoidali e altre cose.
Philippa Nicole Barr: È l’idea che sta dietro i gruppi guidati da Mike Patton con il titolo tētēma?
Brian Ritchie: Be’, sì, dato che l’uso da parte di Anthony Pateras dei registratori Revox e di altri strumenti di sintesi analogici è in qualche modo collegato a questo. Poi ci sono altri fili conduttori che continuano da un festival all’altro… Ogni festival ha come tema l’improvvisazione. Ogni festival ha come tema la collaborazione. Perciò di qui nascono parecchi fili conduttori, diverse pratiche. Sono modulari, di modo che si possono sovrapporre l’una all’altra oppure restare autonome.
Philippa Nicole Barr: Dimmi qualcosa che vuoi provare a realizzare nel prossimo futuro e che non hai ancora provato a fare. Oppure se ci sono gruppi gruppi che vuoi invitare o rischi che vuoi correre.
Brian Ritchie: Anche se può sembrare che abbiamo grandi finanziamenti, in realtà non è così, siamo solo molto efficienti con i fondi che abbiamo e quindi a un certo punto riusciamo a fare delle cose. Per esempio, quest’anno abbiamo avuto un’opera con una sola cantante…
Philippa Nicole Barr: Peaches, giusto?
Brian Ritchie: Be’, sì, era un’opera con un’unica cantante e un pianista, era stupenda, ma non era un’opera vera e propria; poi abbiamo avuto un’altra opera, Before the flame goes out, dell’IHOS di Amsterdam, composta da Constantine Koukias, con un solo cantante e cinque musicisti…
Philippa Nicole Barr: Fantastico!
Brian Ritchie: È un’opera contemporanea, ma un’opera vera e propria dobbiamo ancora metterla su, anche perché non ne abbiamo gli spazi. Sarebbe bello avere più fondi e fare davvero cose su grande scala, più cose con un’orchestra. Ma mi accontento di lavorare con qualunque cosa abbia a disposizione e semplicemente di portare al meglio la creatività di queste persone. Di dare agli artisti tanta libertà.
Philippa Nicole Barr: E per il futuro conti di lavorare solo qui, in questo sito che è così specificamente legato al MONA, oppure di trasferirti in città? Preferisci lavorare negli spazi disponibili in città, per esempio la Hobart Town Hall, o preferisci startene qui fuori, nell’ambiente più raccolto del festival?
Brian Ritchie: Questa è la nona edizione del festival. Ed è solo la seconda che si svolge qui al MONA. Le sette precedenti si sono svolte in città, a parte una che era divisa, sette giornate in città e tre giornate qui. Ci siamo trasferiti qui solo per evitare di diventare ripetitivi. Vogliamo costruire una struttura e comunque dovremo tornare in città, o avere qualche altra idea entro un paio d’anni, prima di poter iniziare a costruire qui. Ci saranno per forza altri trasferimenti.
Philippa Nicole Barr: Che tipo di struttura?
Brian Ritchie: Stiamo costruendo un albergo, che comprenderà anche una sala per gli spettacoli, una sala da mille posti. Perciò, sul lungo periodo, per noi è una buona cosa.