Nel mese di luglio, da oltre 40 anni un’immensa energia si consuma lungo l’asse che collega la Romagna al Trentino, passando da Santarcangelo a Dro, due paesi distinti per paesaggio e tradizione, ma accomunati da un forte humus creativo, che da tempi immemorabili produce due dei migliori festival dedicati alle performing art nel nostro Paese.
Live Works 2016
A Dro, negli indimenticabili spazi della Centrale Idroelettrica Fies, il festival d’arte “Live Works” offre una piattaforma dedicata alle pratiche contemporanee live.
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- Martina Angelotti
- 05 agosto 2016
- Dro, Trento
A Dro, in particolare, negli indimenticabili spazi ritagliati all’interno della Centrale Idroelettrica Fies, da ormai tre anni, a rafforzare quel processo interdisciplinare dato dallo storico Drodesera, è nato “Live Works”. Festival nel festival, “Live Works” è una piattaforma dedicata alle pratiche contemporanee live che contribuisce ad approfondire e ad ampliare la nozione di performance, seguendo l’attuale spostamento del performativo e delle sue cifre.
Curato da Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Denis Isaia e Daniel Blanga Gubbay, si pone come spazio sociale, al di fuori di linguaggi precostituiti, per dar voce a tutte quelle forme di “vita” e di “azione” che sfuggono all’inquadramento stilistico, a favore di una compartecipazione sinergica fra reale e immaginato, enactment e renactment. Un tentativo di oltrepassare il linguaggio naturale del teatro, aprendo al cinema, alla musica, alle arti visive e stimolando glorificazione, ironia, engagement, intrattenimento e – perché no? – anche fallimento.
Ogni anno “Live Works” si compone di due fasi principali attraverso un’open call internazionale e alterna un momento di residenza artistica a un momento live, in cui gli artisti finalisti si confrontano col pubblico, esibendo e restituendo il frutto del proprio lavoro e processo. Una giuria internazionale (quest’anno composta da Lorenzo Benedetti, Aaron Cezar, Aharlse Aubin e Marwa Arsanios) decreta il vincitore al termine del Festival. A puntellare le tre serate sono i guest performer, artisti più strutturati, che contribuiscono a muovere e modificare la declinazione di performance verso imprevedibili derive. Nástio Mosquito è uno di questi. Artista poliedrico di origine angolana, musicista e regista, non potrebbe essere più efficace e spiazzante di quando lui stesso sale sul palco e si concede al pubblico, denso di fascino e inconfutabile carisma. Politicamente scorretto e scaltramente seducente, Nástio Mosquito nelle sue performance si appropria del palcoscenico, abitandolo come fosse la sua casa. Gioca sporco, tradisce i luoghi comuni sviluppando spesso una provocatoria declinazione della dicotomia di colonizzatore/colonizzato o, come in questo caso, immedesimandosi nel ruolo di un “ladro rispettabile”, evoluzione della sindrome collettiva di un contemporaneo Robin Hood.
“Live Works” è anche l’occasione per scoprire artisti più giovani, come Sven Sachsalber di origine altoatesina e di base a NY che, per tutta la durata della residenza a Dro, si è adoperato nella costruzione di cubetti di legno dipinti sulle sei facce come quelli di Rubik, e usati durante una lunga sessione performativa, quasi autistica, per ricomporre un cubo gigante. Al pubblico era solo concesso ascoltare parole lanciate in libertà, un flusso di autocoscienza che lentamente ricostruiva forma e concetto, richiamandosi didascalicamente a un’opera concettuale o al minimalismo formale a tutti gli effetti.
Nella sala Forgia, ancora sede di alcuni vecchi macchinari della Centrale, la partitura sonora di Teresa Cos, una delle due presenze italiane di questa edizione, ritma la sequenza d’immagini delle iconiche tre scimmie (non vedo, non sento, non parlo), proiettate su un cerchio di luce a parete. L’artista compone live una traccia campionata, supportata da chitarra elettrica e tamburo, inscenando un rituale animalesco e profondo che sprigiona tutta la simbologia delle tre figure, identificate spesso con l'individualismo e l’indifferenza sociale.
Trafugano il melmoso territorio del cinema e i suoi connotati, i lavori di Maxime Bichon e Quenton Miller. Il primo, che ha catturato l’attenzione della giuria tanto da meritarsi il premio, con una ricerca interessante e ricca di potenzialità, ma a mio parere poco fluida nella sua forma di restituzione, si configura nello spazio come un “film in divenire” che utilizza oggetti di scena a supporto di elaborazioni linguistiche e immagini in movimento, per affrontare il tema della caduta libera come spazio pedagogico, a partire dalla pratica sportiva del paracadutismo. Quenton Miller, invece, propone una proiezione performativa alla quale anche il pubblico è invitato a partecipare, dove un montaggio serrato di scene prese da film d’azione diventa lo script coreografico su cui un gruppo di performer improvvisa una serie di movimenti.
Fortemente corporeo è anche il lavoro di Jacopo Jenna, un confronto immaginario fra Merce Cunningham e Michael Jackson. Due modi di danzare che assumono una funzione iconica, impersonati dal medesimo interprete, imitatore nella vita di Michael Jackson, che riproduce un archivio di movimenti come pura attività fisica.
La danza è forse l'aspetto meno interessante fra gli intenti di questa piattaforma concepita piuttosto come un confronto partecipato dei linguaggi, che si spinge oltre gli stereotipi della performance vista spesso, soprattutto in Italia, come pura rappresentazione del movimento. Ed è questo il motivo per cui, artisti come Marzia Migliora, altra invitata fra i guest ma per una residenza a lungo termine, proseguono la propria ricerca storico politica, dedicata alla perlustrazione degli archivi emblema di operosità industriale e in particolare a quel pezzo di storia di lavoro locale che vede protagonista la Centrale e i suoi operai, in parte attivi ancora oggi.
O come l'incontenibile Pauline Curnier Jardin, che con un coup de théâtre trasfigura il palcoscenico costruendo una scenografia – installazione attiva e concitata, dove i codici del teatro, dalla drammaturgia al rito, sono continuamente ribaltati e reinterpretati.
Alla luce della situazione geopolitica globale ed europea, in cui vediamo riaffiorare nazionalismi e particolarismi, è importante che la performance e l'arte, la cui storia è il frutto della collaborazione di molti, abbiano una visione a lungo termine, pubblica, politica e intransigente, se necessario. Per questo è importante che un Festival, la cui natura nasce con quest’urgenza, dia la possibilità al pubblico di poter liberamente performare il proprio ruolo di cittadino attivo.
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