Succede raramente che l’adattamento cinematografico di un’opera letteraria superi la tensione dell’originale. Al pubblico non resta che la possibilità di discutere per quale motivo l’obiettivo della assoluta fedeltà al soggetto non sia stato centrato.
Rester vivant
Al Palais de Tokyo a Parigi, la mostra curata dallo scrittore Michel Houellebecq fa emergere una sorta di culto della personalità dello scrittore stesso.
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- Ivo Bonacorsi
- 28 luglio 2016
- Parigi
La carta bianca a Michel Houellebecq al Palais de Tokyo segue di fatto questo destino e come nell’adattamento cinematografico del suo La possibilità di un‘isola, l’Houellebecq “artista” trascina e sparge frammenti di vita e di creazione, posando in modo cosciente come l’ennesimo guru di una sempre più insulsa grammatica delle arti visive di cui incarna i modelli e i tic più recenti.
L’arte contemporanea fornisce un contesto perfetto al gioco suicidario dell’autore, che indossata la maschera da giocoliere è perfino capace di far levitare gli strumenti della sua creazione: penna, taccuino e macchina fotografica. Questa magia è immersa nel buio claustrofobico, gravita e scorre di simulacro in simulacro. Il climax avviene in un tempio buddista. Lo si raggiunge dopo avere superato lo chalet svizzero, il vero studio di Robert Combas, una lounge, un bar e anche saletta di proiezione per soft porno. Il labirinto parigino fa rimpiangere la versione minimalista di questo stesso show visto alla recente edizione di Manifesta a Zurigo. Questa è una edizione integrale meno naïf e abbisogna di idee più concrete e soprattutto da stemperare su un numero più elevato di metri quadrati.
Un effetto Sainte Chapelle, dove ad adorare le reliquie di un torturato autore deve accorrere un pubblico che ne condivide le spine esistenziali (terrorismo islamico, terrore per il settarismo, disperazione per un sistema dell’arte ipercontrollato dal mercato) il tutto maldestramente coreografato dall’esegeta della mediocrità umana. Non certo però un semplice dedalo dove si recano a pregare gli adepti di quella scadente avventura post taylorista che è il nostro mondo e il tempo in cui viviamo. Questo almeno traspare da una quantità di noiosissime foto. Si va dal bianco e nero post-apocalittico di insulsi paesaggi, al colore impiegato in trittici dal simbolismo scadente al nichilismo della sala delle cartoline turistiche, un piccolo padiglione dell’estetica post-instagram imperante.
Occorre tuttavia qualcosa di vero, ed ecco apparire la salma dell’autore, qui nella forma di una scultura ipercontemporanea che Renaud Marchand ha tratto dall’omonimo passaggio nel libro di Houellebecq – poco importa che i serbatoi contengano Daniel, Michel o financo Jed, i protagonisti dei best-seller di Houellebecq – qui non si porrà il problema dell’autenticità delle reliquie. Qui intelligentemente l’autore è solipsisticamente ovunque e si riesuma in tracce estremamente egotiche del suo presente e del suo passato: dalla proiezione di estratti al recupero di ephemera dedicati al defunto cane Clement. A questo rituale si prestano un’artista rigorosa come Rosemarie Trockel, una celebrità locale degli anni Ottanta come Robert Combas, uno stilista unisex come Renoma e addirittura Iggy Pop. Sic! Persino l’idolo punk ha dedicato il suo talento a esercizi di piccolo feticismo per pensieri di più alto cabotaggio. La metafora dell’amore per l’animale da compagnia, riproposto in legenda, sembra estendersi e contraddire le parole recentemente pronunciate dal più francescano dei pontefici.
Ora Houellebecq si è spinto ancora più lontano certificando, con una operazione prossima al culto della personalità, tutti i diversi tentativi di mostre iperintellettuali intorno al suo lavoro. Tra i diversi episodi maggiori e minori, va ricordato il memorabile e seminale tributo che Stephanie Moisdon gli aveva confezionato a Digione e che con il titolo “Il mondo come volontà e carta da parati” sembra avere solleticato perfino il disegno di questa nuova frenesia curatoriale. Cosa abbia spinto Jean de Loisy, direttore del Palais de Tokyo, ad avventurarsi in un nuovo esercizio che flirta con il “di Michel Houellebecq” e con lui stesso è un mistero che credo neppure i risultati di frequentazione sapranno chiarire.
Ora, eccoci di fronte a un sequel Houellebecquiano che nel ripresentarlo come artista totale – e chi potrebbe negare non lo sia – funziona come una serie web o televisiva di successo. L’importante è nutrirsi di stimoli che sottolineino l’indelebile e totale incomprensione del mondo dell’arte contemporanea, per sottolinearne la sua completa estraneità. Strano che sia la mostra dello stesso autore che ne La carta e il territorio si era dannato per spiegarci il funzionamento del “sistema” dell’arte contemporanea. Tempo buttato se davvero gli interessava così poco. Meglio allora attendere il nuovo libro sui super ricchi. Di fronte a questo sussulto di bovarismo commesso per interposta persona – almeno Warhol sognava di essere una casalinga – non ci resta che infilare una moneta nel jukebox démodé che Houellebecq ha piazzato nella mostra e ascoltare una canzone di Carla Bruni, sperando che l’estetica bling-bling abbia davvero fatto il suo tempo. Ma forse è più opportuno chiedere alla galleria che lo rappresenta quanto costa un suo lavoro: ils est temps de faires vos jeux.
© riproduzione riservata
fino al 11 settembre 2016
Rester vivant
Palais de Tokyo
13, avenue du Président Wilson, Paris