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Doubt Carsten Höller
All’HangarBicocca in un susseguirsi di esperienze ed emozioni, l’artista tedesco (laureato in fitopatologia) esplora i territori dell’aspettativa, per lo più disattesa, che si genera verso cose o eventi.
Giallo, vai a destra. Verde, vai a sinistra. Alla mostra di Carsten Höller (intitolata “Doubt”, dubbio) si accede per via di due ingressi, paralleli e pressoché identici, uno affacciato sull’altro. Prima si entra in una specie di enorme tubo catodico a forma di ipsilon, fatto di specchi e un groviglio di lampadine a intermittenza (Y, 2003).
Poi, arrivati a un bivio, si decide verso quale delle due abbacinanti pareti rose dai neon dell’opera Division Walls (2016) si vuole piegare. La scelta può andare dall’analitico all’emotivo. “Io vado a sinistra”, annuncia senza esitazioni l’amica che mi accompagna. Neanche il tempo di ribattere, e già la vedo farsi piccola e scomparire dietro la parete verde. Rimango qualche secondo in balia dell’elementare dilemma – destra o sinistra? giallo o verde? – e di un certo stordimento causato dallo scroscio ubriaco delle luci e dal morso di una leggera cervicalgia che mi trascinavo dal risveglio. “Dev’essersi sentito così Tommaso di fronte alla fede risoluta della Maddalena”, penso, mentre le persone dietro di me, evidentemente spazientite dall’occlusione del passaggio procurato dalla mia impasse, mi aggirano e sbuffano, domandando “permesso, permesso…” con malcelata cortesia.
Alla fine, per togliermi di mezzo, convengo sul giallo (aggrappandomi al ricordo di un canarino che una bambina portava con sé dentro una gabbietta sul tram che avevo preso quella mattina), e mi accodo alla fila di gente che svelta volgeva in quella direzione. Appunto lo sguardo sulla nuca dell’uomo che mi precede, e continuo a fissarla fin quando non è più possibile vederla perché, svoltata la parete gialla, si sprofonda tutti nel buio. Nulla è più visibile a occhio nudo. Qualcuno si fa strada con la torcia del cellulare. I passi da concitati si fanno cauti. Ci si arrischia a proseguire a tentoni, finché piano piano non si intuisce d’esser dentro una specie di corridoio dalle molte anse e inclinazioni (Decisions Corridor, 2015). Rumori dissonanti – respiri, gridolii – raggiungono il timpano, mentre sciami di fosfeni solcano le palpebre come stelle cadenti. Le pupille si dilatano, il battito cardiaco aumenta. Neanche il tempo di farsi prendere da una crisi focale complessa e chiamare i soccorsi, che si è già fuori, con gran sollievo di tutta la corteccia cerebrale.
Rimesso a fuoco il cristallino, ecco comparire l’enorme navata dell’HangarBicocca come divisa in due ali da un motivo ipnotico di linee nere intersecanti dipinte su pareti bianche (Zöllner Stripes, 2011-in corso). Di qua e di là, si ritrovano le stesse opere, come raddoppiate o specchiate. A seconda del percorso che si è scelto – verde o giallo – si incontra prima una, percorrendo la navata per un senso, e poi l’altra, risalendo per il senso opposto, sperimentando sensazioni di “déjà o jamais vu”. Sospesi in alto, torreggiano i due globi lampeggianti di Yellow/Orange Double Sphere (2016), il cui convulso balenare costa al labirinto auricolare un certo sforzo, compromettendo il normale senso dell’equilibrio. In fondo alla navata si avvistano, alte e solitarie, le due giostre senza trofei di Double Carousel (2011), con sopra tatuati i nomi “Ciapa Ciapa” e “Regina del volo”. Sembrano ferme, e quando ci si avvicina, ci si sorprende molto nel vederle ruotare, seppur lentissimamente. “Prego vuole salire?”, domanda a ripetizione un addetto alla giostra allungando uno stravagante paio di occhiali (Upside-Down Goggles, 1994/2011) che pare capovolgano la normale visione binoculare.
Io ricuso l’offerta con un gesto deciso della mano, e mentre resto a guardare altri andare in tondo, gambe penzoloni, mi salgono alla mente le parole di Carsten Höller: “Mi sono accorto di osservare i visitatori delle mie mostre con gli stessi occhi con cui, da bambino, guardavo i pattinatori nei quadri di Pieter Bruegel che mi mostrava mio padre”. Nei suoi lavori più riconoscibili è noto come l’artista (laureato in fitopatologia, fatto su cui molto si insiste quando se ne racconta l’opera) ricorra ad artifici da luna park (scivoli, giostre, macchine volanti) per esplorare i territori dell’aspettativa, per lo più disattesa, che si genera verso cose o eventi, appellandosi a residui di infantilità o incoraggiando stati di percezione alterata – e spesso le due cose vanno a braccetto. Prova ne è l’opera Flying Mushrooms (2015), perno rotante di questa esposizione: un carosello di sette iperbolici esemplari di Amanita muscaria (i velenosissimi e allucinogeni funghi rosso vermiglio delle fiabe, il cui gambo, cappello e lamelle sono stati dissezionati longitudinalmente e rinsaldati alla rovescia) che, azionato dalla semplice spinta manuale di bracci meccanici, li fa volare come pianeti lungo orbite concentriche.
All’improvviso, sento chiamarmi da una voce familiare. Sollevo gli occhi al soffitto e riconosco lassù l’amica di prima, tutta imbacuccata in un’ingombrante imbracatura e pencolante come un sacco di patate, mentre si fa menare in circolo da una specie di macchina per il volo (Two Flying Machines, 2015), da cui si può far scorrere uno sguardo da uccello. Le restituisco il saluto e mi allontano, già che il solo sollevare il capo mi aveva procurato più di una vertigine. Accondiscendo invece a posare la collottola dentro una delle bocche di una vasca cilindrica a tre piazze (Aquarium, 1996) che ti fa sentire come sdraiata sul fondo del mare, mentre sopra la testa tanti pesciolini Balantiocheilus melanopterus spiegano le loro argentee pinne. Resto lì qualche minuto e quasi mi addormento, e tocca che qualcuno mi dia un colpetto sul ginocchio per farmi uscire.
Prima di arrivare in fondo, bisogna misurarsi con tutta una serie di dispositivi di spaesamento e allucinazione, che sono i paraventi, ascendenti e discendenti, di Double Neon Elevator (2016), le cinque porte girevole specchianti di Revolving Doors (2004/2016), i punti luce intermittenti di Phi Wall II (2002), il soffitto e le pareti mobili di Milan Swinging Corridor (2016) e i fari accecanti di Light Corridor (2016). Io, troppo preoccupata di compromettere definitivamente il precario equilibrio dei miei dischi intervertebrali, passo tutto in rassegna in gran fretta, ricurva su me stessa, mettendo in margine o tra parentesi ogni richiamo o attrazione, e a ogni flash porto una mano davanti alla faccia a mo’ di schermo. La tremarella diventa poi palpitazione e penso di avere un abbaglio quando, entrata nello spazio del Cubo, noto due letti accanto al muro e, qualche minuto dopo, li rivedo in una posizione diversa (in realtà, scopro poi, i due letti sonnambuli – Two Roaming Beds (Grey), 2015 – si spostano per davvero grazie a un segnale GPS).
Nel Cubo si fa dietro-front, per risalire come salmoni lungo l’altra riva, in un esercizio mnemonico di riconoscimento di ciò che si è già visto una volta – ed è un po’ come rincorrere l’immagine di se stessi, come fanno i sette detective privati che si inseguono a vicenda nell’opera Manége Humain Vertical (2007). A rafforzare l’idea di duplicazione che informa di sé l’intera esposizione, sono le immagini di gemelli omozigoti delle opere Memory Machine (2012) e Twins (2005-in corso), così come le due architetture utopiche in miniatura Mäuseplatz (Mice Square) black e Mäuseplatz (Mice Square) white (repliche di un parco giochi realizzato negli anni Sessanta a sud di Parigi), abitate da una coppia di topolini da laboratorio (uno nero e uno bianco) separati in casa. E, pure, il video Fara Fara (“faccia a faccia”), bellissima opera del 2014 realizzata a sei mani (con il fotografo Hoyte van Hoytema e il regista Måns Månsson) che vede fronteggiarsi, su due palchi e due schermi differenti, l’uno dirimpetto all’altro, due noti artisti congolesi in una competizione musicale.
All’uscita, mentre ripenso alle opere lasciatemi alle spalle come a un seguito di esperienze (ed emozioni) in parte mancate, mi ritrovo accidentalmente faccia a faccia con Carsten Höller. Mi sento subito in dovere di dirgli qualcosa sulla mostra per assicurarmi la sua benevolenza, ma le mie parole si ammatassano in un discorso farfugliato e tossicchiante. “Per la verità”, gli confesso infine imbarazzata, adducendo le ragioni del mio sbandamento cervicale, “praticamente l’ho vista con un occhio solo”. Lui mi guarda e sorride, e dopo qualche secondo mi domanda: “il destro o il sinistro?”