Non capita spesso che una mostra guadagni due mesi di programmazione supplementare nel sistema espositivo parigino dove il turn-over espositivo per necessità blinda calendari ed eventi.
Beauté Congo
La mostra alla Fondation Cartier di Parigi, su un secolo di arte del Congo, ha creato un vero interesse di pubblico non solo grazie all’intelligente assunto curatoriale di André Magnin ma anche alla qualità degli eventi collaterali, musica e sito compresi.
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- Ivo Bonacorsi
- 09 ottobre 2015
- Parigi
“Beauté Congo/Congo Kitoko (1926–2015)” in programmazione dallo scorso luglio alla Fondation Cartier ha creato un vero interesse di pubblico che non solo conferma l’intelligente assunto curatoriale di André Magnin, ma anche la qualità degli eventi collaterali. Una eccellente programmazione musicale, con uno studio radiofonico panafricano ospitato per qualche giorno nei locali della mostra e un sito internet molto attivo, documentato e ricchissimo di materiali e interviste con gli artisti.
Per il curatore fin, dai tempi del suo affondo storico con il seminale contributo alla mostra “Magiciens de la Terre” – entrata nel mito delle origini del fenomeno della globalizzazione dell’arte – quello africano si è confermato essere un territorio artistico sensibile e in costante mutamento. “Kongo Kitoko” è incentrata sulla vivacità della scena artistica contemporanea nella Repubblica democratica del Congo e analizza non solamente le radici solidamente impiantate negli anni ’20 del secolo scorso ma sposta l’accento sugli sviluppi recenti.
Le opere di una nuova generazione di artisti popolari come JPMIIka o Rigobert Nimi e la perspicacia di collettivi come EZA Possibles accelerano i termini del discorso e reindirizzano le pratiche di artigianato di strada, cultura popolare vs. arte d’élite, e accelerano il desiderio di definizione di una identità africana.
È un’accurata messa in relazione del progressivo spostamento di questa realtà locale, naturalmente molto politicizzata, in continua relazione con la sua comunità di creatori e collettivi d’artista che operano di fatto non solo per ripensare le opere ma più specificamente per elaborare strutture alternative al vuoto del potere politico africano. Lavoro artistico che significa critica radicale e comunica epidermicamente insofferenza per lo status quo. La fonte di ispirazione della maggioranza delle opere integra tradizione e modernità e procede a grandi passi nella costruzione meravigliosa di un arte non elitaria che irrompe nella visibilità del circuito del contemporaneo.
Per alcuni protagonisti in mostra che sono oggi vere superstar anche fuori del loro paese, per esempio Chéri Samba o Bodys Isek Kingelez, è l’occasione di verificare la tenuta e il riposizionamento storico del lavoro, visto che il coinvolgimento con le strutture produttive della Fondation Cartier datano dai primissimi anni ’90, con mostre personali o importanti collettive. È certo che la lettura e i contenuti delle opere sono inestricabili dal riconoscimento del mercato e l’arte africana soffre rispetto alla stabilità di altre realtà della scena planetaria, basti pensare a Cina, India o America del Sud. Esemplari a questo proposito le maquette di Bodys Isek Kingelez che nella loro incredibile riconoscibilità sembrano tuttavia vittime di un pregiudizio di fondo. Somigliano alla realtà geofisica di un continente intero costantemente sfruttato a livello di risorse ma con uno scarso ritorno sulle strutture di produzione e sviluppo locale.
Spostando nel percorso espositivo la lettura degli eventi germinali dell’arte congolese negli ateliers coloniali e nell’infatuazione dei colonizzatori per la potenza di un’arte etnica portata alla luce dall’amministrazione coloniale belga, si crea fortunatamente un accesso orizzontale ad un meraviglioso materiale tinto di sfumature documentarie dal tratto marcatamente antropologico.
È di fatto un gioco di simmetrie quello tra i lavori della giovanissima generazione di artisti come Kiripi Katembo, purtroppo scomparso l’agosto scorso, del quale una splendida serie fotografica in mostra ce ne fa rimpiangere lo sviluppo futuro ma regge il confronto con la figurazione ibrida di altre grandi figure scomparse nel mito degli esordi, come quelle di Albert o Antoinette Lubaki. Specificità e contestualizzazione sembrano il segreto della bellezza di opere antintellettuali e allo stesso tempo fermamente critiche. Quasi uno strato di pop- art si fondesse con la poesia civile.
L’onestà della mostra sta nel raccontare e presentare i migliori prodotti di atelier come quelllo dell’Hangar che il pittore francese Pierre Romain-Desfossés aveva fondato a Elisabethville nel 1946. O di riprendere le intuizioni a cui avevano dato corso alcuni amministratori coloniali belgi come Georges Thiry o alti funzionari (Gaston–Denys Périer per esempio) che negli anni ’30 avevano esposto artisti come Albert Lubaki o Djilatendo nei nascenti musei d’arte moderna o nelle gallerie d’avanguardia europee a fianco di figure come Delvaux e René Magritte. Una produzione che viene dall’esterno affianca i motivi tradizionali e ogni volta che queste gemme affiorano gettano una nuova luce sulla sfaccettatura dell’eredità culturale di questo continente. L’arte africana continua la sua battaglia storica per l’affermazione della sua indelebile e coloratissima traccia nella cultura contemporanea.
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