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Damián Ortega: Casino
Nelle opere dell’artista messicano in mostra all’HangarBicocca, il caos è uno scompiglio di cui si vede solo il trascorso oppure il carattere potenziale: congelato al punto preciso e previsto.
È curioso che Damián Ortega abbia scelto per la brochure illustrativa della sua personale all’HangarBicocca una fotografia che lo mostra con il volto nascosto da una maschera.
La sua arte, infatti, pare essere al contrario tutta tesa allo svelamento, allo sbroglio. L’artista messicano, classe 1967, amico, discepolo e vicino di casa di Gabriel Orozco (quando viveva a Città del Messico, prima di trasferirsi a Berlino) e come lui simpatizzante del readymade, non si può dire s’impegni in alcun esercizio di travestimento. Opera all’opposto allo scoperto. Il guscio oscuro è apparentemente sempre spiegato, dispiegato. Nessun tufo profondo, nessun mistero sottaciuto se non meccanico.
Ortega è uno di quegli artisti che limita il suo campo d’osservazione a un oggetto familiare appuntandovi l’attenzione e completando un inventario di tutti gli elementi che lo compongono. Ad esempio, nell’opera Cosmic Thing (2002) – forse la più nota, sicuramente la più spettacolare di questa esposizione a cura di Vicente Todolí – un Maggiolino Volkswagen dell’89 si disfa in una farragine flottante che ne mette a fuoco ogni pezzo e lo fa apparire molto più affollato di quanto si possa credere. L’intesa complice che è solita saldare assieme motore, capote, cofano, cruscotto, scocca, sedili, sportelli, finestrini, frecce, freni, volante, ventole, levette, accessori e ammennicoli vari – troppa roba per trovarsi tutta in una vettura – in Cosmic Thing si allenta e dissolve. Ed ecco che l’automobile così smantellata, volatile come il coleottero da cui prende il nome, ritrova una sua acerba infanzia, quando la sua esistenza era ancora in forse.
Protagonista di altre due opere in mostra (la performance Moby Dick del 2004 e il video Escarabajo del 2005, che assieme a Cosmic Thing formano The Beetle Trilogy), il Maggiolino Volkswagen ha questo di speciale: lungi dall’essere una semplice berlina è soprattutto una grande creazione d’epoca, consumata nel suo uso come nella sua immagine da tutto un popolo d’ogni classe ed estrazione sociale, che ha alimentato nel tempo mode e propaganda (nella Germania dell’Ovest veniva impiegato per le gazzelle della polizia, a Città del Messico per i tassì), fino a mutare in qualcosa di affettivo, simbolico, un documento della civiltà.
Nell’opera di Ortega il Maggiolino diventa un oggetto sublimato, superlativo (cade infatti dal cielo), a cui non si chiede più alcuna prestazione se non farsi fondamento di una mitologia stratificata. Prestandosi all’assimilazione con il leggendario capodoglio albino, nella performance Moby Dick un Maggiolino bianco palesa la sua potenza, dimostra la sua volontà. Sulle note dell’omonimo brano dei Led Zeppelin, il Capitano Achab-Ortega tenta di arpionarlo con funi e argani in una caccia primordiale, ma lui, riottoso e indomabile, si divincola e contorce – i fari lampeggiano come occhi di gufo, le ruote cosparse di grasso slittano e sbandano – rendendo ogni suo sforzo vano.
Il richiamo al mito echeggia anche nel video Escarabajo, racconto in chiave epica del “ritorno alle origini” di un incanutito Maggiolino dell’83 attraverso un viaggio che da Città del Messico lo conduce fino a Los Angeles e poi di nuovo in Messico (a Puebla, uno degli ultimi luoghi di produzione della vettura), dove viene sotterrato. Se il titolo evoca un’immagine terrestre di chiara umiltà (quella dell’invertebrato) è solo per far meglio risaltare il trionfale risguardo celeste: alla rottamazione si sostituisce l’estremo saluto, con tanto di cerimonia di sepoltura dell’eroe divinizzato (e inumato con le ruote-zampe all’aria).
A giudizio di molti, quella di Ortega è una pratica che disgrega, distanzia, disperde. Certamente il superamento del concetto “macho” di scultura come forma chiusa e conclusa ha distinto fin dagli esordi il lavoro dell’artista ed è evidente come a tutta un’iconografia della detonazione corrisponda quella supernova di martelli, vanghe, badili, seghe e piccozze a propulsione centrifuga che dà forma a Controller of the Universe (2007).Così com’è altrettanto manifesto l’inesorabile stillicidio che lentamente dissangua il funambolesco sommergibile in scala ridotta di Hollow/Stuffed: market law (2012): un fagotto di sacchetti di plastica biodegradabile appeso di sghimbescio al soffitto e imbottito di sale, che riesuma un fatto di cronaca recente (il ritrovamento di un sottomarino adibito dai Narcos al trasporto della cocaina in Sud America) per denunciare tutta una morale vizza e “spompata” legata ai traffici commerciali marittimi, più o meno legalizzati.
Detto ciò, è evidente come la messinscena della decostruzione finisca per favorire l’idea, inversa e contraria, di coesione e unità (basta guardare una scultura futurista). Pur ridotti a brandelli, gli oggetti scenici di Ortega salvano sempre la faccia. L’immagine da manuale d’istruzioni per il montaggio a cui inevitabilmente rimandano non fa che ricondurli a un linguaggio codificato per cui tutto è funzionale al legame. La dissociazione non ha mai sfogo ma indugia sempre in uno stato di vigile suspense. È ciò che avviene in Unión-Separación (2000), un’installazione che dà prova, attraverso un noto esperimento scientifico, dell’inestinguibile rapporto di distacco-ricongiungimento che si genera all’interno di un acquario se fatto roteare vorticosamente sopra un tavolo ancorato a terra da una roccia e una risma di cemento (come per timore che voli via: tutti i lavori di Ortega condividono questa sorta di stato sospeso, che li fa levitare, prender quota o bighellonare in pose malferme: seggiole e barili piroettanti su se stessi, obelischi a rotelle, mobili assiepati in modo pencolante o sospesi penzoloni al soffitto).
Più che da un vento che alza e scompagina semi e pollini, le opere dell’artista paiono essere investite da forze gentili che le strattonano sì da parte a parte, senza però mai provocare un vero sconquasso, uno strappo. Tutt’al più uno svenimento, come quello che va in scena a ripetizione nei nove film in pellicola Nine Types of Terrain (2007), che mostrano file di mattoni disposte sulla falsariga di configurazioni strategico-militari (descritte nel trattato L’arte della guerra di Sun Tzu) darsi di gomito a vicenda e capitolare una sull’altra in una reazione a catena – per poi rimettersi, dopo pochi secondi, nuovamente sull’attenti. Nulla collassa veramente. Il tracollo è solo suggerito, scomodato per essere subito scongiurato. La rottura del visivo quotidiano, il caos (dal titolo dell’esposizione: “Casino”) non è dell’ordine del quarantotto: è uno scompiglio di cui si vede solo il trascorso oppure il carattere potenziale. Congelato al punto preciso e previsto in cui un elemento manifesta un principio di nesso, di parentela.
Proprio la cifra della vicinanza distingue un gruppo di opere di piccole dimensioni e grande risonanza esibite in questa mostra a mo’ di reperti archeologici: una di esse raccoglie ventisei tortillas un po’ avvizzite attorno a una gracile costruzione a incastro (Módulo de costrucción con tortillas, 1998); un’altra rende conto di tutti i granelli adunati attorno al tutolo di una pannocchia di granoturco disseccata (Elote clasificado, 2005); un’altra sfodera i filamenti aggrovigliati di una pallina da golf dall’anima liquefatta (Liquid Center, 1997); un’altra ancora (Visceras 1, 2010) mette in forma diciotto cilindri in stucco simulando un coagulo rosa-violaceo di tessuti muscolari. Qui Ortega s’ingegna a mostrare quel concerto di spinte agglutinanti (spontanee, organiche, artefatte) e strati calcificati (celati, assoggettati, mistificati) che interessano le forme conosciute dell’universo.
Una lampadina elettrica fagocita una candela consumata (Prometeo, 1992). Una mano di legno multitasking suggella l’“articolato” passaggio dallo scimpanzé all’uomo (The Part Played by Labour in the Transition from Ape to Man (F. Engels), 2013). In Estratigrafia 4 (2012) le locandine promozionali della stagione musicale berlinese (raccolte nell’arco di un anno) si depositano in una sfera di papier-mâché come le sfoglie spellate di una roccia sedimentaria. Sorta di residuo di un’età geologica differenziale, un’indigesta fava in calcestruzzo si spoglia del suo baccello (Three Items, 2013), mentre è sotto la forma del fossile (Tension Contained (fossil), 2013) che si presenta una dozzinale pallina di elastici “rubber band ball”, le cui origini risalgono all’epoca precolombiana, e un’“antidiluviana” cinepresa Super 8 (svuotata di cartuccia e bobina) appartenuta al padre dell’artista (Three Industrial Fossils, 2013). Anche il tempo, nell’opera di Damián Ortega, è un meccanismo insolito che può essere facilmente smontato e smascherato nelle sue voraci profondità come nelle sue stratificate esfoliazioni.