Dall’inizio del Settecento, epoca della sua edificazione, questo microcosmo costituisce un cuore pulsante della cultura armena. E dopo il 1915 ha accolto e offerto una possibilità di educarsi a numerosi ragazzi reduci dall’esperienza delle deportazioni.
Oggi, in concomitanza con il centenario del genocidio armeno, San Lazzaro ospita il Padiglione Armeno della 56. edizione della Biennale d’Arte di Venezia: un padiglione dedicato non tanto a un territorio fisico, quanto a un popolo che, disperso nel mondo, ha finito per incarnare l’idea e lo spirito dell’internazionalismo molto prima che si cominciasse a parlare di globalità. Adelina Cüberyan von Fürstenberg, che lo ha concepito, lo ha infatti dedicato all’Arménità, cioè al sentirsi Armeni nella diaspora.
La mostra è articolata, ma a misura d’uomo, e pur comprendendo numerosi artisti si inserisce nel monastero con discrezione, con poesia, e con grande rispetto per l’intimità del luogo. Le opere esposte, diverse le une dalle altre, sono accomunate da un tono sommesso, lontano da quello che connota in larga parte la mostra centrale della Biennale; tono che caratterizza anche le installazioni di ampie dimensioni e di genere più pubblico, come la scultura di Melik Ohanian Les Réverbères de la mémoire. L’opera è composta delle parti di un monumento alla memoria del Genocidio che avrebbe dovuto prendere l’aspetto di nove lampioni stradali, ma ricurvi su se stessi, quasi fossero a testa bassa. Anni fa il progetto vinse un concorso; era quindi destinato ad essere realizzato nella città di Ginevra, ma una serrata opposizione ha reso impossibile sino ad oggi installarlo. Per questo, a San Lazzaro, tra l’attracco dei vaporetti e l’ingresso al monastero, l’artista ha presentato le componenti dell’opera smontate e accatastate: come a raccontare una memoria che ancora non trova la propria forma.
Poco distante dal groviglio di Ohanian, sul magnifico belvedere dell’isola, sorge l’installazione di Mikayel Ohanjanyan: una serie di sculture geometriche posate a formare un cerchio. Ai riferimenti simbolici dell’opera si sovrappone l’evocazione di un sito archeologico di epoca megalitica, forse un osservatorio astronomico, situato in Armenia. Per il resto, le opere sono dislocate in diversi punti del monastero e ognuno degli artisti ha adottato una modalità di intervento personale.
Di Rosana Palazyan si vede A history I never forgot, un video che raccoglie storie e racconti frammentari uditi dall’artista sin dall’infanzia. Nina Katchadourian, nei video della serie Accent Elimination, evidenzia la diversità di dizione e di accenti tra i membri di una stessa famiglia, rivelando attraverso questo fatto le innumerevoli storie dei singoli e il significato profondo della diaspora. Proprio a queste voci così diverse, ma così importanti nell’attestare la presente vitalità di un popolo disperso, e quindi, implicitamente i motivi comuni della sua diaspora, dà spazio il Padiglione Armeno.
Oggi l’Armenia vive. Yerevan, in particolare, è sede di una scena artistica interessante che comprende artisti, gallerie e spazi culturali quali il Cafesjian Center for the Arts, l’Armenian Center for Contemporary Experimental Art e l’Institut for Contemporary Art diretto da Nazareth Karoyan, anche presidente dell’Art Criticism and Curatorial Training School di Armenia. Ma resta ancora essenziale l’attività di tanti artisti visivi, poeti, scrittori, cineasti armeni nati nella diaspora, in Europa, in America, in Medio Oriente, ad Aleppo come a Los Angeles. Inserite a pieno titolo in un circuito internazionale, queste figure hanno saputo tramandare un’eredità culturale che rischiava l’azzeramento, l’hanno saputa rivitalizzare attraverso interpretazioni e ibridazioni, e ancora continuano a farlo.
Basti pensare a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che da decenni lavorano per smantellare filtri e strutture retoriche che condizionano la nostra lettura della storia e delle immagini. La loro opera è fondamentalmente filmica; ma comprende anche dei disegni al tratto miniaturizzati, realizzati con l’acquarello e per lo più monocromi, ma accesi da sprazzi di colore vibrante. In una sala del Monastero, Gianikian e Ricci Lucchi espongono un lungo rotolo bianco su cui Ricci Lucchi ha trasposto in disegno le fiabe armene che il padre di Yervant, Raphael Gianikian, usava raccontarle. In un’altra saletta è esposto il video Ritorno a Khodorciur, un lungometraggio basato su un’unica inquadratura, in cui Raphael Gianikian, raccontava la propria vicenda di superstite: ricordi scarnificati, attraverso i quali l’uomo, ottuagenario, testimonia anche per coloro che non lo hanno potuto fare. Sopravvissuto bambino alle marce della morte e poi alla schiavitù, quindi riscattato dopo aver visto la fine della propria comunità, Raphael aveva trascorso un periodo di studi proprio in Italia, presso i monaci melchitariti. Per Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi esporre il video sull’isola è equivalso a riportarlo a casa.
Per loro, come per gli altri artisti che espongono nel Padiglione Armeno, la memoria del Genocidio è bagaglio di vita personale ed elemento fondante; affrontarlo significa condividere la storia del passato, e di conseguenza la responsabilità del futuro.
Nell’anno del Centenario del Genocidio, questo conferisce ad Arménité un senso e un’intensità che sono valsi al padiglione un significativo Leone d’Oro per il migliore Padiglione della Biennale di Venezia.
fino al 22 novembre 2015
Padiglione nazionale della Repubblica di Armenia
56. Esposizione Internazionale d’Arte
Isola di San Lazzaro degli Armeni, Venezia