L’Italia stava cambiando pagina anche grazie ad aziende d’avanguardia come l’Olivetti, che non a caso ospitò nel proprio negozio di Milano la mostra “Arte Programmata” a cura di Bruno Munari. Qualcuno si scagliò contro i “motorini” che facevano muovere opere ludiche, impersonali, centrate sull’incontro con la tecnica. Il pieghevole della mostra, con un testo di Eco, era modesto e rivoluzionario al contempo.
Il Gruppo T non era solo: come molti altri che erano sorti in quegli anni tra cui il GRAV francese e l’N di Padova, era sorretto dall’idea che si dovesse togliere all’idea di autore un’eccessiva enfasi sul soggetto-persona e che le idee potessero nascere, anche nel campo dell’arte, da un pensiero e da un lavoro collettivo. Un altro presupposto fondamentale era che l’opera non fosse qualcosa di chiuso, terminato, stabile, ma prevedesse l’interazione con il pubblico e il cambiamento nel tempo.
Ma appunto, i media oggi sono interattivi. Non possono più funzionare senza un viavai con il pubblico, che ne è protagonista e sovente regista. McLuhan aveva previsto qualcosa di simile al web, ovvero un mondo delle comunicazioni in cui l’azione sarebbe stata connotata da un moto reciproco di ricetrasmittenza. Ora che siamo always on, non potremmo più concepire di essere semplicemente sopraffatti da una Marilyn che non possiamo modificare.
Il punto non è dunque riportare a nuova evidenza le opere create un tempo, che pure hanno avuto una rinnovata visibilità in mostre come “Arte Moltiplicata” Alla Fondazione Prada di Venezia. Non c’è bisogno di dare un carattere di feticcio a ciò che venne prodotto negli anni cinquanta e sessanta. Si avverte invece la necessità di dare loro una lettura storica che le attualizzi e le riporti alla luce come meritano, non attraverso rievocazioni o quotazioni mercantili ma accostandole a cose che ne dipendono: operatività odierne che partono dalle stesse parole d’ordine di un tempo: spazio-tempo, divenire, relazione, variazione, partecipazione.
L’opera ridiventa, come scrissse Eco a suo tempo, “un campo di possibilità” come del resto era già chiaro in un fil rouge che collega la presenza di tempo, caso, partecipazione dello spettatore nel Grande Vetro di Marcel Duchamp, nei Mobiles di Alexander Calder, nelle opere che interconnettono luce e movimento di Lazlo Moholy-Nagy e Naum Gabo, nelle provocazioni percettive di Bruno Munari e Victor Vasarely. E potremmo aggiungere tutto quello che, già nel 1955, era stato alla base della piccola ma gloriosa esposizione Le Mouvement curata da Pontus Hulten presso la galleria parigina di Denise Rene. E del resto quanto teatro, da Peter Brook alla Fura dels Baus, quanta musica, da Cage a tutto Fluxus, quanta performance più o meno tecnologica, con Nam June Paik in primis, ha colto e sviluppato queste premesse?
Si può pensare che sarà assai difficile resistere al mito dell’artista-eroe, il cui sostrato romantico è sorretto da precise esigenze di mercato; ma ormai dovremmo saperlo: esistono due strade attraverso cui l’arte e la cultura contemporanea si avventurano, l’una connotata da un’economia di sponsor e sostegni non di lucro, l’altra fatta appunto per un mercato che per battere la sua moneta ha bisogno di concetti quali espressione di un soggetto, unicità o rarità dell’opera, oggetto come feticcio.
Le due strade possono convivere. Per questo ha senso un manifesto per una nuova arte programmata, nella quale questo termine ha assunto un significato legato alle potenzialità dell’incrocio tra computer e telefonia; una dichiarazione d’intenti che vede il suo principio sostanziale in una partecipazione che cerca, indica, vuole una democrazia del segno e quindi un indirizzo improntato al sociale. Così come lo si può concepire oggi.
fino al 14 giugno 2015
Arte ri-programmata. Un manifesto aperto
a cura di Serena Cangiani, Davide Fornari, Azalea Seratoni
all’interno della mostra Short Cuts, a cura di Daniel Sciboz e Felicity Lunn
Centre Pasqu’Art di Biel-Bienne