Arte ri-programmata

Progetto di ricerca-azione sul tema dell’introduzione in ambito artistico dei metodi e degli approcci di hardware e software open source e dell’open design, Arte ri-programmata: un manifesto aperto è ospitato fino al 14 giugno al Centre Pasqu’Art di Biel-Bienne (Canton Berna, Svizzera).

C’era una volta il Gruppo T (come “tempo”) nato nella Milano fervente dei tardi anni Cinquanta, gli stessi in cui Lucio Fontana manteneva Piero Manzoni e altri giovani artisti, gallerie come Pater, Apollinaire e Azimut mostravano i nuovi fermenti, Umberto Eco lavorava alla Rai (programmando anche le domande per Lascia o Raddoppia che, non a caso, ospitò tra i suoi concorrenti John Cage). I protagonisti della compagine erano Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco. La loro prima manifestazione significativa fu Miriorama, un termine che significa “mille cose da vedere” e che suggeriva dunque un’eccitazione contraria alla contemplazione sofferente propagandata dall’arte informale.

Documenti d'archivio

L’Italia stava cambiando pagina anche grazie ad aziende d’avanguardia come l’Olivetti, che non a caso ospitò nel proprio negozio di Milano la mostra “Arte Programmata” a cura di Bruno Munari. Qualcuno si scagliò contro i “motorini” che facevano muovere opere ludiche, impersonali, centrate sull’incontro con la tecnica. Il pieghevole della mostra, con un testo di Eco, era modesto e rivoluzionario al contempo. Il Gruppo T non era solo:  come molti altri che erano sorti in quegli anni tra cui il GRAV francese e l’N di Padova, era sorretto dall’idea che si dovesse togliere all’idea di autore un’eccessiva enfasi sul soggetto-persona e che le idee potessero nascere, anche nel campo dell’arte, da un pensiero e da un lavoro collettivo. Un altro presupposto fondamentale era che l’opera non fosse qualcosa di chiuso, terminato, stabile, ma prevedesse l’interazione con il pubblico e il cambiamento nel tempo.

Gabriele Devecchi, Miramondo, 2010 (1960) per Officina Alessi

Parole chiave che passarono presto sotto lo schiacciasassi della pop art americana, centrata sull’azione dei media più che sull’interazione con essi.
Ma appunto, i media oggi sono interattivi. Non possono più funzionare senza un viavai con il pubblico, che ne è protagonista e sovente regista. McLuhan aveva previsto qualcosa di simile al web, ovvero un mondo delle comunicazioni in cui l’azione sarebbe stata connotata da un moto reciproco di ricetrasmittenza. Ora che siamo always on, non potremmo più concepire di essere semplicemente sopraffatti da una Marilyn che non possiamo modificare.

Davide Boriani, Giradischi ottico-magnetico, 2010 (1960) per Officina Alessi

È sulla scorta di questo fiume carsico, che fa riemergere intuizioni antiche e vivaci, che è nato il progetto Arte ri-programmata: un manifesto aperto. Coordinato da Serena Cangiano e Davide Fornari, in collaborazione con Azalea Seratoni, è promosso dalla Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana insieme a molti altri enti di supporto. Ha dato luogo a una pubblicazione recente edita da Johan & Levi in cui vengono chiarificati i presupposti di un interesse non solamente rinato, ma aggiornato su tutte le basi offerte dalle attuali piattaforme tecnologiche.

Thibault Brevet, Bit Shift Study, 2015

Sullo sfondo, il fiorire dell’estetica relazionale che ha connotato gli anni Novanta, spesso coinvolgendo semplici ma efficaci dispositivi tecnici (da Olafur Eliasson a Tomas Saraceno, passando per le teorie di Nicolas Bourriaud); ma anche lo sviluppo di piattaforme di prototipazione come Arduino, nata negli studi di cultura digitale a Ivrea e ormai diffusa nel mondo, e di una mentalità per la quale il diritto d’autore non viene più salvaguardato in modo imperativo e si esprime sovente come Creative Commons, o per la quale ognuno può farsi da solo cose progettate da altri a cui aggiunge il suo personale contributo: non c’è più solamente un making ma un atteggiamento mentale che porta a WeMake (che non a caso è anche il nome di un soggetto collettivo).

Grazia Varisco, Sferisterio semidoppio, 2010 (1960) per Officina Alessi

Il punto non è dunque riportare a nuova evidenza le opere create un tempo, che pure hanno avuto una rinnovata visibilità in mostre come “Arte Moltiplicata” Alla Fondazione Prada di Venezia. Non c’è bisogno di dare un carattere di feticcio a ciò che venne prodotto negli anni cinquanta e sessanta. Si avverte invece la necessità di dare loro una lettura storica che le attualizzi e le riporti alla luce come meritano, non attraverso rievocazioni o quotazioni mercantili ma accostandole a cose che ne dipendono: operatività odierne che partono dalle stesse parole d’ordine di un tempo: spazio-tempo, divenire, relazione, variazione, partecipazione. L’opera ridiventa, come scrissse Eco a suo tempo, “un campo di possibilità” come del resto era già chiaro in un fil rouge che collega la presenza di tempo, caso, partecipazione dello spettatore nel Grande Vetro di Marcel Duchamp, nei Mobiles di Alexander Calder, nelle opere che interconnettono luce e movimento di Lazlo Moholy-Nagy e Naum Gabo, nelle provocazioni percettive di Bruno Munari e Victor Vasarely. E potremmo aggiungere tutto quello che, già nel 1955, era stato alla base della piccola ma gloriosa esposizione Le Mouvement curata da Pontus Hulten presso la galleria parigina di Denise Rene. E del resto quanto teatro, da  Peter Brook alla Fura dels Baus, quanta musica, da Cage a tutto Fluxus, quanta performance più o meno tecnologica, con Nam June Paik in primis, ha colto e sviluppato queste premesse?

Giovanni Anceschi, Abstract video, 2010 (1960) per Officina Alessi

Si può pensare che sarà assai difficile resistere al mito dell’artista-eroe, il cui sostrato romantico è sorretto da precise esigenze di mercato; ma ormai dovremmo saperlo: esistono due strade attraverso cui l’arte e la cultura contemporanea si avventurano, l’una connotata da un’economia di sponsor e sostegni non di lucro, l’altra fatta appunto per un mercato che per battere la sua moneta ha bisogno di concetti quali espressione di un soggetto, unicità o rarità dell’opera, oggetto come feticcio. Le due strade possono convivere. Per questo ha senso un manifesto per una nuova arte programmata, nella quale questo termine ha assunto un significato legato alle potenzialità dell’incrocio tra computer e telefonia; una dichiarazione d’intenti che vede il suo principio sostanziale in una partecipazione che cerca, indica, vuole una democrazia del segno e quindi un indirizzo improntato al sociale. Così come lo si può concepire oggi.

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Martin Fröhlich, <i>Between Time and Space</i>, 2015
Todo, <i>Magnetic Drowbot</i>, 2014-2015
Yvonne Weber, <i>Topografia della luce</i>, 2015


fino al 14 giugno 2015
Arte ri-programmata. Un manifesto aperto

a cura di Serena Cangiani, Davide Fornari, Azalea Seratoni
all’interno della mostra Short Cuts, a cura di Daniel Sciboz e Felicity Lunn
Centre Pasqu’Art di Biel-Bienne