Questa opera totemica di Marianne Heske si presta dunque ad un nuovo giro di interpretazioni, misurando cosa sia rimasto dell’affascinante semplicità del suo gesto artistico seminale. Smontare, trasportare e rimontare nelle sale di un museo (la prima volta fu il Centro Pompidou per la Biennale di Parigi del 1980) una capanna di pastori vecchia di 400 anni. Il concept di questo lavoro ha finito per funzionare come un sismografo, in grado ancora oggi di registrare come sia cambiata e si stia evolvendo la percezione dell’Arte Concettuale più recente.
Candido, minimal ed essenziale il display, così come lo furono la dichiarazione di Marianne Heske alla base del progetto: l’artista era sicura del diverso funzionamento dell’opera e della posizione centrale dell’artista nel modificarne le condizioni di fruibilità.
Il progetto si fregia ora di un nuovo titolo tour Retour e, seppure isolato nella sua algida iconicità, prova ancora a restituire il lungo percorso e la rigorosa poetica dell’artista norvegese che ha posto la pratica della dislocazione e della riappropriazione come atto centrale dall’inizio della sua carriera. Una decina di anni prima dell’esplosione delle pratiche di artisti relazionali della generazione successiva, e in sintonia con l’appropriazionismo statunitense, l’artista ha negoziato, il noleggio di questo pezzo di paesaggio.
Ha dovuto sbucciare patate con il suo proprietario e per lo spostamento dalle pendici impervie del fiordo norvegese, dove si trovava arroccata la capanna, approntare quella che appariva allora una strana operazione di smottamento di senso. Occorre immaginare che persino il fatto di ricollocare la capanna-opera allo stesso posto era decisivo e assolutamente pertinente al ripristino di quel paesaggio. Marianne Heske ha documentato tutte le fasi, dallo smontaggio, alla dipartita – con l’aiuto della popolazione locale che lo ha calato in basso, pezzo per pezzo – fino al furgone dell’artista che personalmente lo trasportò al Beaubourg.
Uno strano effetto di sovrapposizione di estetiche è vederlo oggi, per suo volere – questo l’originale – in compagnia di una bella replica in resina bianca, quasi che le pratiche di calco alla Rachel Whiteread fornissero una ulteriore prova di tenuta alle certezze della Heske, che intende parlare delle condizioni instabili nella ricezione di un lavoro ma dell’assoluta centralità dell’identità culturale di chi lo produce.
L’opera, discussa fin dagli inizi da Pierre Restany e poi da Hans Ulrich Obrist e Nicolas Bourriaud, potrebbe apparire come una sorta di tardo tassello nel regesto delle ricerche della land art ma, più tardi e ricontestualizzata, diviene una imprescindibile dimensione di riflessione tra coscienza di sé e paesaggio.
Nel suo display al Beaubourg negli anni ‘80 la documentazione video giocò un ruolo importante, Heske è anche una brava ed esperta videoartista, la dimensione dell’innocente sguardo bucolico fu negata da una telecamera che riprendeva gli spettatori intenti a guardare l’opera come una scultura. Monumento ecosostenibile dell’insincerità del se e forse primo reperto di nascita dell’Antropocene: l’era in cui è determinante la funzione del contesto nella nuova riorganizzazione delle percezioni.
La spietata drammaticità del paesaggio norvegese dona una dimensione più romantica che sembra dall’inizio insinuarsi nelle pieghe di questo paesaggio concettuale.
Quasi si sovrapponessero strati di pensiero, la nuova lettura potrebbe includere Kurt Schwitters in fuga dal nazismo in Norvegia, e la sua costruzione della capanna MerzBau di cui esiste qualche frammento al centro Henje Honstad.
Oggi il lavoro di Marianne Heske, intatto nella sua componente concettuale ricorda anche gli splendidi, inqualificabili e bistrattati paesaggi che il grande dadaista dipinse durante il suo soggiorno in Scandinavia. Una impossibile e impassibile idea di armonia senza i colori acidi della pittura nordica.
fino al 5 maggio
Marianne Heske, tour — Retour
Astrup Fearnley Museum Oslo