Emergono dall’oscurità dell’HangarBicocca come tante isole luminose e si articolano in un percorso seducente che occupa l’intero spazio espositivo.
Cildo Meireles
Complice lo spazio impressionante dell’HangarBicocca, la mostra asseconda decisamente il carattere seducente del lavoro di Mereiles: un percorso permeato di senso etico.
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- Gabi Scardi
- 02 maggio 2014
- Milano
Sono le undici grandi installazioni di Cildo Meireles, più una, minuscola, Cruzeiro del Sud, che incontriamo per prima: un cubo di 9 millimetri per nove, metà in pino e metà in quercia. Cruzeiro del Sud fa riferimento alla cultura della popolazione india dei Tupì, la cui tradizione indigena narra che il fuoco sia stato ottenuto per la prima volta attraverso lo sfregamento di questi due tipi di legno considerati sacri, e che in quel momento si sia manifestata anche la divinità del tuono, e quindi tutta la cosmogonia Tupí.
Ma l’oggetto allude anche al processo di semplificazione imposta dai missionari gesuiti nei confronti della cultura Tupí. Nella sua sintesi Cruzeiro del Sud si offre dunque come vero e proprio concentrato di senso. E d’altra parte, per l’energia poetica e simbolica che irradia e per la posizione in cui è collocata – posata semplicemente a terra, all’inizio della mostra, al centro di un grande cerchio luminoso – quest’opera, che con forza ci attira verso di sé e ci costringe a inchinarci per guardarla meglio, può essere intesa come un fulcro da cui si sviluppa il resto della mostra. Siamo negli anni Sessanta, e l’opera rientra tra quelle a cui Meireles stesso definì con il neologismo “humiliminimalism”: un termine coniato per definire la reinterpretazione del minimalismo americano in chiave “umile”.
In quegli anni infatti, fuoriuscito per un breve periodo dal Brasile, l’artista aveva partecipato ampiamente della temperie culturale concettuale, frequentando tra l’altro l’ambiente degli artisti minimalisti e condividendo con loro momenti seminali, come la grande mostra Information, svoltasi nel 1970 al MoMA; ma l’adesione a quell’ambiente era stata parziale; Meireles aveva mantenuto un’indipendenza di pensiero e di poetica e un profondo legame con le coeve ricerche dell’arte brasiliana e del movimento tropicalista, caratterizzati da una più spiccata relazionalità e da un’attitudine esperienziale, sensoriale, empatica. E infatti le sue opere coniugano una critica politica estremamente puntuale con una capacità di seduzione – e in molti casi con un senso dell’ironia – che segnano la distanza di Meireles rispetto agli artisti statunitensi.
La ricercata perfezione formale è sentita come essenziale affinché il messaggio pervenga nella sua integrità, ma lentamente, come per meglio sorprenderci. Se già in Cruzeiro del Sud si manifesta la sua inclinazione ad attivare la relazione tra l’opera e il visitatore, e a teatralizzarla, le altre installazioni esposte alla HangarBicocca sono penetrabili e fruibili; sorte di immersivi e seducenti teatrini che coinvolgono, di volta in volta, tutti i sensi: tatto, vista, udito, gusto, il senso della temperatura, dell’equilibrio, del rischio.
Ciò che conta sono la relazione interna delle parti che l’artista ha predisposto e l’interazione, sempre diversa, del visitatore. L’accostamento e la giustapposizione dei materiali, individuati per il loro significato intrinseco, sono fondamentali. Basti pensare all’imponente Através, struttura attraversabile a forma di labirinto realizzata con reti da pesca, reti da bestiame, recinzioni, cancelli e sbarre, pali di metallo, filo spinato, ma anche voile e cellophan, e molto altro. Il pavimento è interamente coperto di vetri che stridono e si frantumano a ogni nostro passo. Através tematizza così la tensione tra visibilità e invisibilità, penetrabilità e impenetrabilità, inclusione ed esclusione attraverso l’esperienza fisica e diretta della trasparenza e del senso di pericolo.
Sulla divergenza tra percezione e realtà e tra aspettativa ed effetto è basato anche Eureka/Blindhotland, un ambiente delimitato da una sottile tenda che ospita una bilancia con oggetti di volume diverso ma di identico peso, delle bocce di aspetto identico ma di peso diverso, e un suono che contribuisce allo spaesamento percettivo del visitatore. La riflessione sull’ambivalenza delle nostre percezioni e il paradosso della visione e dello spazio sono centrali anche in Olvido: un tepee indiano con il pavimento nero di carbone che si staglia nel mezzo di un cerchio composto da ossa bovine ed è circondato da un basso muro di candide candele; un’opera di grande bellezza; ma le ossa emanano un odore repellente e dalla tenda fuoriesce il ronzio di una sega elettrica. Il significato dell’opera, legato a una critica degli effetti delle dinamiche coloniali e delle loro implicazioni rimosse, scaturisce proprio dalla discrepanza tra equilibrio formale ed elementi di disturbo.
Lo stesso si può dire per altre installazioni sempre improntate all’estetica dell’accumulo e della ripetizione, e caratterizzate da riferimenti alla storia dell’arte antica e recente; tutte sono accomunate dal fatto di suscitare reazioni emotive contrastanti; come Babel, torre di radio di ogni epoca sintonizzate su stazioni diverse: il risultato è una polifonia/cacofonia e uno sfasamento tra l’aspetto talvolta vetusto degli apparecchi e i suoni trasmessi, necessariamente attuali; o come Amerikkka, in cui ci troviamo a camminare con difficoltà su 22.000 bianchissime uova (di legno), sotto un cielo dorato che evoca quelli medievali in foglia d’ora, mentre in realtà è composto di 55.000 proiettili; una volta di più siamo combattuti tra lo stupore e l’ammirazione dovuti alla perfezione formale e il disagio fisico ed emotivo dovuto all’incedere faticoso e alla consapevolezza dei bossoli sospesi minacciosamente sulla nostra testa.
Complice lo spazio impressionante dell’HangarBicocca, la mostra asseconda decisamente il carattere seducente del lavoro di Mereiles; a tratti l’evidenza di una continua ricerca di nuove soluzioni e il controllo assoluto su ogni elemento compositivo risultano potenziati al punto che si rischia di dimenticarne altre componenti importanti: il percorso dell’artista è permeato di uno spiccato senso etico e, in molti casi, le sue opere nascono dalla necessità di reagire a situazioni di iniquità. Negli anni Sessanta e Settanta Meireles rispondeva alla giunta militare che si era impadronita del Brasile; più avanti si trattò di una precisa reazione nei confronti di dinamiche culturali ed economiche di carattere postcoloniale. Delle numerose opere che presero la forma di interventi di disseminazione legati all’idea di transazione, di speculazione, di censura, nella mostra milanese non c’è traccia, se non nell’ottima guida predisposta per i visitatori.
L’equilibrio si ristabilisce con l’opera che chiude il percorso, Abajur: un dispositivo scenico che evoca le lanterne magiche e che ci propone un panorama marino con tanto di gabbiani in volo. A un’osservazione ravvicinata scopriamo che a consentire alla scena di illuminarsi è il lavoro fisico di alcuni ragazzi che spingono una ruota; un meccanismo nascosto, uno sforzo fisico sfiancante e frustrante. Questa volta la tensione tra lo slancio iniziale e il disinganno successivo è brutale e il portato sociale e politico dell’opera non può essere eluso.
© riproduzione riservata
Fino al 20 luglio 2014
Cildo Meireles. Installations
A cura di Vicente Todolí
HangarBicocca
via Chiese 2, Milano