Kjartansson riesce a combinare come pochi altri vanagloria e ragionevolezza, melanconia ed euforia, luoghi comuni e sorpresa, grandiosità e umorismo.
Incontrato in occasione della sua recente performance musicale all’HangarBicocca lo scorso 5 dicembre, la conversazione si è sviluppata sul filo di questa maestria nell’oscillare tra poli opposti, e certi concetti hanno innescato un dialogo sull’amicizia, sul fare arte e sull’ascolto della musica romantica.
Ironia/Sincerità: Ironia e sincerità sono le due facce della stessa moneta. A quanto pare esiste un pregiudizio contro l’ironia, spesso considerata l’opposto della sincerità, ma spesso si tratta in realtà di un modo per stabilire con schiettezza un rapporto, di una maniera di esprimere quel che sta tra le righe, e può anche essere un modo molto poetico di comunicare.
The Visitors è un’opera molto sincera. Forse ora che ho preso un po’ di distanza riesco a percepirvi una certa componente ironica, ma non è mai stata mia intenzione creare una situazione ironica. Il senso principale dell’opera era fare buona musica, musica piacevole. C’è qui una forte componente emotiva, una specie di ‘crescendo’ presente nella melodia dell’opera, principalmente dovuto a Davíð Þór Jónsson, il pianista, con cui lavoro spesso.
In altri casi è stato diverso, come in Variation on Meat Joy, una performance che ho realizzato di recente per la Tate Gallery, che voleva essere qualcosa da trasmettere dal vivo, che entrasse direttamente in casa della gente. Era un pezzo molto immediato perché avevo a che fare con Internet, il che è di per sé un fatto tanto ironico che ho iniziato a pensare che genere di cose si potessero trasmettere dal vivo. Abbiamo trasformato la scena in una sala da pranzo rococò in cui vari attori in costume settecentesco mangiavano bistecche. Intorno c’erano dei microfoni per amplificare i rumori della masticazione e della deglutizione.
In The End (alla 53a Biennale di Venezia, nel 2009) il punto erano ancora l’ironia e la sincerità. Era una performance della durata di sei mesi, in cui un palazzo veneziano veniva trasformato in uno studio dove quotidianamente dipingevo la stessa scena e la stessa persona: l’artista Páll Haukur Björnsson che fumava sigarette e beveva birra in costume da bagno.
Sono affascinato dall’artista bohémien, che è un personaggio tanto buffo. È l’incarnazione dello stereotipo del macho, dell’artista maschio violento che si prende molto sul serio, ma poi fa solo pitture, come i bambini! Fare il pittore è un mestiere così carino, ed è buffo quanto lo si prenda sul serio.
Amicizia/Famiglia: Curiosamente ho scoperto che l’arte è un ottimo modo di coltivare i miei rapporti sociali, come è accaduto in The Visitors, un’opera costruita sull’amicizia. Ho creato una gran bella scusa per passare una settimana intera con i miei amici. Nella performance erano tutti amici miei, tranne Shazhzad Ismaily (quello che suonava il banjo), il fidanzato di Gyða Valtýsdóttir (la violoncellista), che poi è diventato un amico. È una persona fantastica, ed è successa una cosa nuova, ne è nata una nuova amicizia. Tutti erano profondamente coinvolti reciprocamente ed è diventata un’esperienza di strettissima vicinanza. Per esempio Páll, il modello di The End, è un caro amico, e poi c’erano tutti i pezzi che ho scritto con Davíð Þór Jónsson, che farà con me la performance all’HangarBicocca. Siamo molto vicini, e portiamo avanti la nostra amicizia trovando modo di fare delle cose insieme.
Forse questo modo di agire viene dal mio rapporto con la musica. Da ragazzi avere un gruppo musicale è molto divertente, perché mentre si sviluppano delle amicizie si crea qualcosa, non ci si limita a stare insieme; il che è quel che accade anche in queste opere.
Attualmente sto elaborando con mio padre un lavoro in cui andiamo sulla riva a disegnare il mare insieme. Disegniamo esattamente allo stesso modo, e diventa un modo di bloccare mio padre e di passare del tempo con lui, dato che ha sempre tanto da fare; e così è semplicemente un modo per passare qualche momento da padre e figlio. Sto dando ai miei rapporti personali spazio di svilupparsi e sto dando a cose reali il tempo di accadere.
Palcoscenico/Regia: Un palcoscenico c’è sempre! Dovunque io faccia arte c’è un palcoscenico. Quando mi siedo a disegnare mi comporto in modo teatrale, come se facessi finta di disegnare. L’aspetto di finzione delle cose per me è molto importante: una specie di salto fideistico fuori dalla realtà che diventa più vero del vero. Scrive Oscar Wilde nel Ritratto di Dorian Grey: “Mi piace recitare: è tanto più reale della vita!” Una frase che esprime bene i miei sentimenti.
Sono cresciuto nell’ambiente teatrale. Ero sempre a teatro, e lì c’era una realtà che era anche più vera della realtà di casa. I mie genitori avevano un rapporto teso, e negli anni Ottanta mio padre scrisse un dramma intitolato Divorzio, in cui mia madre recitava la parte principale, ma non divorziarono. Era come se la realtà fosse finzione. Probabilmente lui il divorzio lo voleva, e per questo scrisse un dramma sull’argomento. Poi, dieci anni dopo, divorziarono davvero.
Insomma, sì: per me il palcoscenico è sempre stato la realtà. Ma è un palcoscenico solitario: quando si cresce in teatro ci si sta per la maggior parte del tempo durante le prove, quando il pubblico non c’è. È un posto dove stai a veder lavorare tua madre e tuo padre, su un palcoscenico privo di pubblico, e quindi diventa un luogo mentale dove si è soli.
Durata/Ripetizione: Se la si dilata nel tempo, la performance diventa scultura. Se si prende una narrazione lineare, un racconto, e la si ripete continuamente, diventa una scultura di ciò che viene raccontato. Succede lo stesso agli ubriachi: sono sculture, continuano a dire sempre la stessa cosa. Quando si perde lucidità si entra in un ciclo ripetitivo, come chi soffre di demenza, che continua a ripetere la stessa cosa.
Ma la ripetizione è anche un grande sostegno, perché la creatività certe volte è così deprimente: si sta di fronte a una tela vuota, bisogna farne qualcosa, e allora si ha bisogno di una specie di rituale ripetitivo per evitare la depressione. Le variazioni su un tema sono la base di ogni religione: basta pensare al mantra, alle orazioni.
Anche la musica che acquieta è un fatto ripetitivo. Quando si sta male mentalmente non conviene ascoltare musica romantica, perché si prende tutto lo spazio e ha una profonda componente narrativa. La musica romantica è pericolosa per i depressi. La musica barocca invece è ripetitiva e calma la mente. Bach può essere tranquillizzante, Beethoven invece non lo è per nulla, non si sa mai che cosa sta per succedere!
Attualmente sto lavorando a un nuovo dramma insieme con Karman Sveinsson. Si intitolerà The Explosive Sonics of Divinity. Kjartan è un grande compositore, e sta lavorando allo spartito, che sarà eseguito da un’orchestra sinfonica. Io sto dipingendo le scenografie, e l’opera sarà costituita da musiche e scenografia. Niente attori e quasi nessun movimento: calma in teatro!
Sarà come una solitudine teatrale, ci si va e non succede nulla. Il teatro è sempre narrazione, e io propongo un’opera de-narrativa, che sarà rappresentata il 19 febbraio alla Volksbühne di Berlino.
Sto anche lavorando a un’altra opera intitolata World Light, dal romanzo Ljós heimsins di Halldór Laxness. Il libro parla di un artista e della sua ricerca della bellezza. È stato scritto negli anni Trenta come una specie di critica modernista, oltre che come inno alla bellezza.
Da socialista radicale Laxness intendeva riflettere sul ruolo sociale dell’artista, e perciò all’inizio del libro ritrae un poeta che vive per la bellezza con lo scopo di mettere in discussione la motivazione estetica incondizionata dell’artista. Ma a mano a mano che il romanzo si sviluppa il personaggio principale prende il sopravvento, e diventa chiaro che Laxness aveva una vera e propria ossessione per l’idea della bellezza!
È un gran libro. Mio padre ne fece tre adattamenti teatrali, e Ljós heimsins per me diventò una specie di bibbia di famiglia! Perciò il prossimo aprile sto programmando il compito impossibile di filmare la storia a Vienna. Con ogni probabilità il narratore sarò io, e Davíð Þór Jónsson il protagonista.