Potrebbero essere – a scelta – i capitoli di un libro, i titoli di una playlist o anche soltanto la traccia visibile del disastro narcisistico che ci circonda. La stessa origine patologica dei proliferanti “ego-museum” privati, di cui qui si mimano le forme nella versione di servizio pubblico. Una scelta perfetta per rigenerare confusione e distanza dall’idea di contemporaneo, rovesciando sul visitatore un informe tsunami curatoriale.
Dopo il disastro dell’intero concept, occorrerà comunque occuparsi di questi splendidi relitti. Ci sono bellissime opere in mostra: tanti straordinari giovani, a fianco di vecchi artisti con le loro intuizioni che sicuramente sarebbero arrivate al pubblico con tempi, logiche e criteri differenti da quelli della selezione di questo progetto.
Certo vedere qualche lavoro di Amirita Sher-Gil, scoprire la maquette di Adolf Loos per la casa di Josephine Baker o vedere un bel video di Otolith Group fa sempre piacere. Purtroppo, però, anche per i curatori indipendenti esiste un gotha curatoriale planetario, che suggerisce mode e detta regole e liturgie.
Si sono infrante però la meraviglia e l’ideologia degli anni Settanta, nati dalla semplicità del fare arte. Ora si fanno avanti i nuovi numi tutelari Hans Ulrich Obrist, il nostro Massimilano Gioni, Jens Hoffmans che hanno supervisionato la splendida offerta parigina di moduli espositivi.
Un nuovo ristorante di livello ha aperto al Palais de Tokyo, le vetrate portano la firma di Cattelan e Toilet Paper almeno per qualche mese e l’opera più bella esposta fuori da ogni sguardo curatoriale è quella di Estefanía Peñafiel Loaiza
Dal 2009, raccoglie – come fosse un médicinale – il residuo delle gomme da cancellare che utilizza nel suo lavoro. Non è certo Rauschenberg che cancella De Koonig, ma gli artisti restano i più bravi a creare antidoti a uso e consumo dei curatori.