Il Blue Planet, ovvero l’immagine della Terra vista dallo spazio, è stata una delle icone più rappresentative della storia recente, sostituitasi alla Mushroom Cloud, simbolo del dopoguerra e della Guerra Fredda.
The Whole Earth
La mostra alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino volge lo sguardo alla California degli anni Sessante e Settanta, partendo dal Whole Earth Catalog, il manuale di Stewart Brand che invitava le persone a considerare la Terra un bene prezioso, considerato da Steve Jobs l’antesignano di Google.
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- Martina Angelotti
- 05 luglio 2013
- Berlino
Stewart Brand l’aveva scelta nel 1968 come immagine di copertina per la prima uscita di the Whole Earth Catalog, sperando che potesse convincere gli esseri umani a considerare la Terra come un luogo unito, dove razzismo e intolleranza diventavano insignificanti visti da lontano e in un universo tanto grande.
Whole Earth Catalog era un manuale che invitava le persone a creare il proprio ambiente e stile di vita e a considerare la Terra un bene prezioso da rispettare e alimentare attraverso la conoscenza.
Portavoce di questo orientamento, la mostra “The Whole Earth California and the Disappearance of the Outside” alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino è la dimostrazione dello sforzo intellettuale del decennio fra gli anni Sessante e Settanta, principalmente in California, terreno fertile e propizio per lo sviluppo della controcultura americana, che anticipa storicamente quella che poco dopo verrà definita la “Californian Ideology”. I lasciti della cultura hippy e la fusione con la cibernetica, le sudate battaglie e i conseguenti progetti legati all’ecologia e al patrimonio paesaggistico ambientale, la musica delle contaminazioni tra bianchi e neri e quella dei dissidenti, la psichedelia e la cultura digitale. California über alles cantavano i Dead Kennedys negli anni Ottanta. Vitalità politica, culturale e sociale, che il curatore Anselm Franke, insieme con Diedrich Diedrichsen, restituisce con la stessa intensità con cui è nata e cresciuta, utilizzando espedienti visivi, allestitivi e scientifici che aiutano a supportare l’idea base di Stewart Brand.
Possiamo trovare testi scritti, immagini di repertorio, documenti video e audio fruibili attraverso mini display installati su pannelli stampati, che compongono le micro stanze tematiche all’interno dello spazio simbolo del modernismo occidentale. Gli sgabelli mobili che ciascuno può spostare a piacimento e comodità per fruire dei singoli documenti, suggeriscono una mobilità fluida e funzionale. Una sezione dedicata alle ricerche di psichedelia e al cinema sperimentale, con il manifesto di Stan Vanderbeek; opere ed esperimenti di Land Art ed ecologia di Nancy Holt und Robert Smithson; la beat generation e l’influenza che ha portato alla musica e alla performance con per citarne uno, un film di Lowrence Jordan. Si possono ascoltare da “Exodus” di Bob Marley, che rientra a far parte della sezione Babylon, a “We can be together” cantata dai Jefferson Airplane nel ’69 nonostante fossero considerati “fuorilegge agli occhi dell’America”.
A incorniciare questo denso pezzo della storia, opere più recenti, dal noto lavoro Otolith 1 parte della trilogia di Otolith group. Fino ai quadri di Jack Goldstein, che catturano l’istante spettacolare dei fenomeni scientifici e naturali. La mostra giunge come un vero e proprio statement. Un interessante esperimento di come un’istituzione che porta il nome di “casa della cultura” può operare, nel perseguimento dei propri fini divulgativi, scientifici e di comunicazione.
Non un museo in senso stretto, che sperimenta e mostra il risultato di una ricerca artistica, ma un’istituzione pubblica con finalità e obiettivi più ampi che si rapporta al grande pubblico, lo sensibilizza e lo rende partecipe di un’idea di cultura. Anche la scelta di essere rappresentati da una figura come quella di Anselm Franke, curatore di finissimo intelletto e indubbia capacità, è interessante. Già dal suo esordio in questo luogo, Franke ha colpito per l’estrema acutezza con cui ha ideato e messo in scena il tema dell’animismo, peraltro dando un esito ineccepibile allo stesso argomento del suo PHD. Apprezzo e ammiro, la professionalità e la profondità con cui certi temi di dominio pubblico, molto rappresentati, a rischio di generalizzazione, siano invece stati trattati, entrando a far parte di ciò che, nel suo piccolo, rappresenta una chiave di volta non solo nell’approccio scientifico/curatoriale, ma in quello ancor più importante della dialettica opera/spettatore.
È sintomatico di un momento storico fondamentale, che anche al Kunstwerk di Berlino, che un anno fa aveva ospitato la controversa Biennale di Arthur Zmijewski, sia successo qualcosa di analogo. Nella stessa città, ma all’interno di un’istituzione totalmente diversa, con obiettivi altrettanto diversi, la curatrice Ellen Blumenstein, che ha da poco rivestito la nuova carica di direttore, ha progettato una mostra del tutto insolita per gli standard istituzionali, affidando a Nedko Solakov la responsabilità di tradurre graficamente, con testo e disegni, il layout visivo del suo ampio progetto curatoriale, all’interno degli spazi rinnovati del Kunstwerk. Una sorta di comunicato espanso in cui ciascuno ha la possibilità di dialogare direttamente con programma e strategie espresse sottoforma di teaser, e addirittura con un Avatar di Ellen stessa.
A fronte dunque di un momento storico in cui l’arte contemporanea (così come la politica), ha bisogno di ritrovare il confronto e il dialogo con il pubblico, ecco che a Berlino, in modo e forme diverse, due istituzioni hanno fatto un tentativo per perseguire tale scopo.
Steve Jobs, nel discorso inaugurale della Standford University del 2005, pronunciò la frase “Stay Hungry, Stay Foolish” tradotta da tutti i media italiani in “Siate affamati, siate folli”. Jobs stava citando Stewart Brand (peraltro anche inventore del termine personal computer), il cui Catalog è stato più volte menzionato e considerato da Jobs l’antesignano di Google. Ecco, vedere questa mostra diventa l’esercizio ideale per praticare tale dichiarazione. E non dimenticare da dove arrivi e dove ti trovi: l’universo è immenso. Martina Angelotti (@martinanji)