Martina Angelotti: Cominciamo da un luogo. Avete realizzato performance in teatri, diverse volte. Quali differenze avete percepito rispetto a uno spazio espositivo, nel processo che vi ha portato a immaginare e realizzare l’opera?
Gelitin: Effettivamente ci sono molte differenze. Il teatro di solito è dipinto in nero, mentre la galleria in bianco. Il teatro generalmente possiede un palcoscenico, ha molte sedute, e il tuo modo di sederti e muoverti è piuttosto vincolato. È difficile fare qualcosa che non somigli a uno “spettacolo”. Qualche anno fa, siamo stati invitati a presentare un progetto per uno spazio teatrale. È stato bellissimo, qualcosa di veramente nuovo per noi in termini di relazione opera-fruitore. Il pubblico arriva, si siede e ti guarda a lungo, questo di solito non accade in una galleria. Diventa interessante confrontarsi con persone che hanno un modo diverso di osservare e di esperire quello che succede di fronte a loro.
Si aspettano qualcosa
Sì esatto: Godot! Teatro è anche ciò che puoi rimettere in scena il giorno successivo, quello che facciamo noi non può essere riproposto uguale anche domani. Dipende dallo spettatore. Si tratta di creare uno spazio, piuttosto che un’opera teatrale: ecco forse il nostro approccio sta nel mezzo.
Trovo molto interessante il vostro approccio all’architettura e allo spazio. Attraverso i vostri interventi, le persone entrano in contatto con lo spazio circostante: a volte si nascondono in un buco, a volte fuori dalla finestra, a volte trovano riparo in un luogo dentro al luogo. Come vi relazionate con l’architettura che ospita il vostro lavoro?
Lo spazio inizia quando ti svegli al mattino, esci dallo spazio-sogno. Fai colazione e se hai una mostra, ti interfacci con le persone che lavorano con te, con i vestiti che indossano, con il loro modo di camminare; ti chiedi dov’è la toilette, com’è la luce, qual è la temperatura, l’umidità, che odore ha, come suona quando lo percorri e ti muovi al suo interno. Tutto questo determina una grande considerazione dello spazio e il modo in cui inserisci qualcosa nello spazio ne determina il contesto. Puoi scegliere di metterlo su un lato, oppure al centro; lo puoi esplodere all’interno fino a nasconderne i limiti fisici. Spesso ci preme fare attenzione a non essere necessariamente site-specific. Non ci interessa molto questa dimensione, perché preferiamo utilizzare lo spazio come supporto, più che come fine. Se il luogo è troppo invasivo, noi esponiamo fuori, e viceversa. Alla Biennale di Shanghai, per esempio, la vigilanza ti chiedeva la carta di identità all’entrata del museo. Abbiamo deciso di esporre all’esterno.
E cosa è successo con La Louvre Paris, al MAM, che è esattamente l’opposto?
In quell'occasione, siamo rimasti dentro, l'esterno era un po’ brutto effettivamente (ridono). Abbiamo chiesto al museo di lasciare tutti i resti della mostra precedente, perché per loro era più facile non doverli smaltire e per il nostro lavoro era più utile. Non abbiamo fatto cose complicate con l'architettura. Pensi che dovremmo?
No, penso che lo stiate già facendo, in termini di consapevolezza di luoghi, superfici, materiali e allestimento, naturalmente.
La Louvre era come una matrioska, troppe informazioni, un museo dentro al museo, insomma. Esistono già tre livelli di museo al suo interno, intervenire non era semplice e oltretutto per costruire una versione “femminile” dell’originale Louvre. E poi pensa che ad Abu Dhabi avevano stanziato circa 200.000 dollari per esporre alcune opere de La Louvre!
Stare nudi. Il culto fallico del mito di Dioniso, è la scena principale della nascita del teatro. Potremmo considerare questa immagine come un’ispirazione per leggere la vostra relazione con la nudità? O la vostra idea si lega ad altri immaginari, per esempio il porno?
Shiva Linga. Ci sembra l’associazione più esemplificativa. Nel culto indiano, è la rappresentazione di una forma che non può essere rappresentata in nessuna forma. È qualcosa che abbiamo più presente, rispetto a una visione dionisiaca. Dioniso non lo conosciamo tanto e non ci siamo mai trovati ad adorare la sua immagine. (ride)
Dunque niente di primordiale, o primitivo.
Tu puoi parlare con la bocca, con gli occhi, col sedere, col pene, con un braccio, con una spalla, tutto fa parte del tuo corpo. Il pene è divertente perché spesso è ridicolo. È una micro scultura e lo puoi trasformare in qualcosa di più grande. E questo è uno dei progetti a cui stiamo lavorando: fare una micro scultura nel paesaggio e questa ridicola idea dietro la micro scultura, trasformarla in qualcosa di più grande. Il porno ha a che fare con un sistema di codici, noi consideriamo la nudità più da un punto di vista naturalistico che “iconografico”.
Anche questo è interessante. Nei vostri interventi, sovvertire i ruoli (come nel Carnevale ad esempio) travestirsi dunque, può trasformarsi in qualcosa di tragicomico, gioioso, ma non è mai uno scherzo. Qual è la vostra idea di provocazione?
Succede, senza previsioni.
Vuoi dire che non fa parte della ricerca?
La provocazione non la puoi controllare, non puoi fare qualcosa solo perché vuoi provocare qualcuno. Crediamo che non sia molto interessante considerarla come punto di partenza, quanto sarebbe noioso! Questo è ciò che farebbe una campagna di marketing: “come provocare il pubblico affinché venga attratto dal mio prodotto?”. Non è interessante guardarla in questo modo, ma certamente se la percepisci come un principio di minaccia, può essere davvero scioccante, e proprio perché è scioccante (anche se lo è soltanto per te) è anche provocatoria, può cambiare la tua vita.
E l’ironia? (un termine usato spesso a sproposito e male interpretato)
Quando metti te stesso di fronte al pubblico, l’essere ironico non è qualcosa che ci mette a nostro agio. A volte il pubblico è ironico, a volte divertente. Preferiamo l’umorismo, alla parola ironia. Per noi è più importante prendere seriamente l’umorismo. È una questione di “effetto”. I bravi artisti risultano sempre “scioccanti”. A partire da Tiziano ad esempio. Tu spettatore, puoi decidere se e come rapportarti con l’opera, se fermarti a guardare ancora oppure allontanartene subito. Quando qualcosa è “scioccante”, generalmente cambia il tuo modo di percepire il mondo. Capisci cosa intendo? Forse sì, si tratta di provocazione. Ma se produci qualcosa di buono, non puoi controllarlo sulla base del suo essere scioccante o meno. In sostanza, non puoi controllare la provocazione, e se vai avanti ponendoti questo come obiettivo iniziale, può risultare davvero fallimentare, un gioco rischioso e poco interessante.
Di solito state molto attenti alle parole che utilizzate per i vostri titoli, che non suonano mai casuali. Ad esempio, uno dei vostri ultimi lavori, Kühlschrank, Bett, Tastatur a Francoforte, è un titolo molto evocativo. Come nasce questo lavoro?
Frigorifero, letto e tastiera, è il suo significato. Nasce da una suggestione e da un progetto reale di cucina concepita negli anni Venti. Un’idea molto razionale di rendere la cucina più efficiente, più pratica. Il concetto si riassume in questo titolo che si traduce anche in un modo di vivere. Francoforte è una città strategicamente controllata, con un centro molto organizzato, pensato secondo degli schemi ben precisi. Ciascuno deve dirti cosa fare, dove sederti, cosa guardare. In pratica, non ti è permesso “mangiare la tastiera, cagare nel letto e dormire nel frigorifero”, non lo puoi fare, è proibito. Per questo abbiamo creato qualcosa di sregolato, indefinito, per dare più input. Se nella piazza principale tutto è definito, regolato e strutturato, il rischio che corri è quello di sentirti male!
Ma voi siete parte di questo sentimento?
Certamente, siamo tedeschi! siamo parte di questo incubo. (ridono)
Un ultimo accenno a un'immaginaria rubrica “referencies”. Se doveste darmi un suggerimento diverso dal solito, quale mi dareste in questo momento?
Non saprei, è sempre complicato scegliere dal mazzo, trovare dei riferimenti culturali che facciano da tornaconto al nostro immaginario. Per restare in Austria, sicuramente preferiamo citare Valie Export molto più che l’Azionismo Viennese. Ma davvero, non è semplice. A volte mi rendo conto che le persone pensano da dove arrivano i riferimenti, ma più spesso, giunti alla soluzione di un problema, mi accorgo che qualcun altro c’è arrivato prima. Trecento anni prima magari, perché del resto, come artisti, partiamo dalle stesse considerazioni: il contesto o come comporre le immagini ad esempio. Ciascuno di noi attinge dal proprio bagaglio conoscitivo, dalle letture e dalle visioni che riemergono continuamente.
Invece, parlando dell’ultima performance realizzata a Milano in occasione di "Liberi Tutti" dal titolo Ritratto Analitico. Qual è la vostra idea di ritratto?
È da intendersi nel modo più tradizionale del termine. È la relazione tra colui che fa un ritratto e colui che lo riceve. Ma utilizzando altre modalità di “contatto”. Può non essere necessariamente un “face to face”, ma anche un “ass to face” o “face to ass”.