Ron Mueck alla Fondation Cartier

Di nuovo alla Fondation Cartier dopo il grande successo del 2005, l'artista australiano procede al dissezionamento analitico del nostro vivere quotidiano, attraverso gesti e segni minimali e quasi segreti, che solo i grandi artisti captano per svelare le relazioni archetipiche con il mondo.

Le immagini delle tre nuove opere dello sculture australiano Ron Mueck, pressante pretesto della sua splendida mostra, hanno ottenuto il loro effetto mediatico in modo pressoché immediato: circolazione, riproducibilità e tutto ciò che di più lontano ci può essere dalla schiva lentezza con cui sono in realtà prodotte. Mentre il bellissimo film di Gautier Deblonde ci introduce nella calma dell’atelier e, per la prima volta, mette a nudo il processo creativo delle opere di Mueck, le sculture, come feticci, sono ricollocate nella macabra fruizione superficiale del contemporaneo. E, come in una Lilliput contemporanea, sfuggono al potente lavoro rituale di signum di presenze esorcizzanti di simulacri sacrali di vita vera. Un’ambigua giovane coppia, una donna con la spesa e una coppia di anziani sotto l’ombrellone, alla Fondation Cartier, rinnovano, dal vivo, la magia di cui solo questo straordinario artista australiano è capace.

In apertura e qui sopra: lo studio di Ron Mueck, gennaio 2013. © Ron Mueck. Photo © Gautier Deblonde


La sua prima mostra francese in queste stesse sale (era il 2005) totalizzò un record di presenze ancora oggi imbattuto per questa istituzione, nonostante le superstar esposte negli anni successivi fossero del calibro di David Lynch, Takeshi Kitano e Patti Smith. Quasi un decennio fa, cinque opere, espressamente prodotte per l’occasione, si rivelarono essere i capolavori che oggi conosciamo. Indimenticabile, la figura colossale di una donna a letto (In Bed) o la splendida miniatura della Spooning Couple. Il dramma della coppia, sembra un tema centrale nel lavoro di Mueck. Questa volta riproposto in posizione eretta e con le due figure impietrite in un gesto di conflitto segreto, mentre nella mostra del 2005 la posizione a cucchiaio dei personaggi sdraiati (oggi conservati alla Tate di Londra) sembrava tradire la fine di un rapporto o un definitivo abbandono. Ora, come allora, Mueck procede al dissezionamento analitico della narrativa insita nel nostro vivere quotidiano, comunicata attraverso gesti e segni minimali e quasi segreti, che solo i grandi artisti captano per svelare delle relazioni archetipiche con il mondo.

Ron Mueck, Drift, 2009, tecnica mista. Collezione privata © Ron Mueck. Photo courtesy of Anthony d’Offay, London and Hauser & Wirth


Credo sia per comodità che Mueck venga definito dai più iperrealista: lo dicono cronache e libri di storia dell’arte contemporanea, ma con Gerard Richter, è tra gli artisti più politici in circolazione e tra i pochi artisti che scombinano e criticano la perfezione delle immagini. Finalmente nel caso di un artista schivo  come Mueck – che non rilascia interviste – il film d’impareggiabile eleganza formale di Gautier Deblonde (che è difficile chiamare documentario), ne svela la ritualità e la plastica profonda piuttosto che lo spoglio lavoro di atelier. Ed è uno splendido pendant della mostra – fatta di pochissimi selezionatissimi pezzi sapientemente reinstallati e con una tensione perfetta – per la quale è stata essenziale la curatela di Grazia Quaroni.

Lo studio di Ron Mueck, ottobre 2013. © Ron Mueck. Photo © Gautier Deblonde


Non è certo l’intimità di Mueck che viene svelata perché, al di là della sapienza scultorea che lo avvicina ai grandissimi, sarebbe il caso di cominciare a scomodare davvero i moderni: da Rodin a Rosso da Brancusi o Giacometti, piuttosto che nascondere la sua preziosa congenita classicità, che risale a Caravaggio o Boecklin.

Ron Mueck, Mask II, 2001, tecnica mista. Anthony d’Offay, London. © Ron Mueck. Photo courtesy of Anthony d’Offay, London


Mueck guarda il mondo, non le immagini, non è un artigiano, ma un attivista politico: è intento a fornirci le prove della nostra relazione alienata con il mondo. Evidenze di vita nuda, come la chiama Giorgio Agamben, nutrite dello stesso pensiero dei grandi filosofi. La nostra relazione con il mondo è lì, dove la archiviarono in una minuta calligrafia Walter Benjamin e i puppet-master dei film di fantascienza. È lì anche nella scultura di montaggio per pezzi di Rodin o nelle sedute estenuanti di posa di Giacometti. Ron Mueck per fortuna sfugge al facile spettacolo da museo delle cere di M.me Tussaud, o Musée Grevin. È proprio al detournement di questa estetica che Mueck si contrappone.  La sua relazione con la realtà non è post-pop (come l’iperrealismo) è, più semplicemente, il disvelamento della cattiva coscienza dell’immagine. Un doppio funerale, dove ai simulacri del potere contrappone il reale. Mueck è crudo come Courbet ne L’origine del mondo.  

Lo studio di Ron Mueck, novembre 2008. © Ron Mueck. Photo © Gautier Deblonde


Non c’è una relazione speculare; il gioco di scala e di presenza delle sue opere sono lì a ricordarci che la lista di operazioni del vedere è legata alla complessità del sentire e che la sinestesia è un consumato e invisibile gioco di relazione. Non siamo più spettatori, ma persone intente a misurare, atraverso la paradossale bellezza del lavoro di Mueck, la spettralità della nostra presenza.