Come un unico grande lavoro, articolato in più tappe corrispondenti alle opere del passato a partire dal 1974 e condensato nelle opere ideate per il Padiglione d'Arte Contemporanea, la mostra crea un dialogo sensibile con l'architettura di Ignazio Gardella e rende il visitatore immediatamente consapevole del proprio ruolo di produttore di senso, a partire dall'installazione composta dai microfoni disseminatati nello spazio e attivi durante tutto il periodo espositivo. La mostra, curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist, è accompagnata da un libro edito da Mousse Publishing e Walther Koening Verlag, che raccoglie per la prima volta l'intera produzione di Garutti.
Abbiamo incontrato Alberto Garutti nelle sale del PAC e raccolto alcune riflessioni sulle opere in mostra. Le riportiamo come annotazioni, come fossero la trascrizione di un'audioguida parziale e spontanea.
Il lavoro dei microfoni è il lavoro-chiave della mostra, che chiede allo spettatore di assumersi la responsabilità del suo ruolo. È un'opera che ne modifica il comportamento, può diventare un'opera performativa, porta dentro l'idea del presente, attualizzando i vecchi lavori. Quando scrivono del mio lavoro, molto spesso, si fermano all'aspetto più superficiale, quello apparentemente sentimentale. In realtà ogni opera pubblica si fonda su una metodologia che applica l'idea della medaglia a due facce. La prima è il territorio, bisogna comprenderlo in modo che ci si radichi nel territorio (le relazioni con i cittadini), che io uso machiavellicamente per arrivare alla seconda faccia: fare un'operazione dal profilo linguistico molto contemporaneo che contiene una critica forte a un certo modo di fare arte pubblica. Anche l'opera dei microfoni lavora in questo senso. Se nella città l'artista deve andare verso lo spettatore, verso il cittadino, nel museo è lo spettatore che deve assumersi la responsabilità. Di tutte le registrazioni si farà un libro, un libro che secondo Obrist sarà il libro più alto del mondo.
La relazione di empatia con il PAC è il riflesso del mio grande rispetto nei confronti dell'architettura modernista della città, con i suoi giardini che si sviluppano all'interno (...). Negli anni Cinquanta, c'era l'usanza di mettere nelle case proprio un ficus, l'opera che io dedico al PAC, e che quindi oltre a essere un'opera che riflette sulla relazione con la natura e l'architettura, con la struttura urbanistica della città, è un omaggio a Gardella. In alcune foto dell'epoca dell'inaugurazione del museo c'erano proprio queste piante.
CREDO DI RICORDARE (1974)
Il luogo domestico non è mai declinato in maniera intima. È il luogo dove in passato ci mettevamo in relazione con il mondo. Il mondo mediatizzato ce l'avevamo in casa ed era costituito dalla TV, dalla segreteria telefonica… Ora ce l'abbiamo in tasca. A posteriori, vedo un sacco di cose che non vedevo prima, ma che portavo avanti assecondando il mio sentire. A quei tempi, soffrivo la dimensione dogmatica dell'agire politico a tutti i costi, anche per questo mi rivolgevo alla dimensione domestica. Guardare questi oggetti, isolandoli, era un po' sconcertante ai tempi in cui l'io veniva sopraffatto dal noi. Io mi occupavo di immobilità.
Il lavoro dei microfoni è il lavoro-chiave della mostra, che chiede allo spettatore di assumersi la responsabilità del suo ruolo.
Orizzonte in qualche modo prelude ai lavori pubblici perché è un insieme costituito da unità, parla già un linguaggio che tiene conto della pluralità di relazioni. Ogni pezzo costituisce una linea dell'orizzonte ideale della mia vita, che è fatta dalle persone che l'hanno segnata. Il lavoro delle matasse viaggia nella stessa linea, in ciò che tiene insieme due persone, due luoghi. Si vuole rendere fisica una relazione. I lavori sulle distanze (le matasse, i campionari) si riferiscono tutti a distanze effettivamente percorse, a piedi, in bicicletta o in auto, e riflettono misurazioni empiriche, pre googlemap. Campionario è un lavoro sull'economia, sulla reazione rispetto alla committenza: sono delle "marchette" in qualche modo.
TEMPORALI (2009)
Temporali è una serie di opere che parla dell'universo. Penso allo sfondamento dell'architettura stessa, o ad Andrea Pozzo, a Sant'Ingnazio, a Caravaggio. Soprattutto questa strana cosa del rapportarsi con l'universo, con questo enigma inconcepibile, come lo definiva Borges, che sta sulla nostra testa e che ha appunto a che fare con l'arte. Uno poi immagina la leggenda mitologica di Zeus o al Padre eterno per chi ci crede. Io invece pensavo alla natura. Ho scritto da qualche parte che l'arte contiene il senso mistico della natura.
Questa scritta complanare al pavimento parla continuamente delle esperienze individuali. Parla con chi la legge. Può stare ovunque, in qualche maniera si trascina dentro il mondo di tutti. È un condensatore di esistenze, una specie di metronomo. Più la si realizza, più produce senso. DIDASCALIE (2012)
Le didascalie sono il meccanismo attiratore del lavoro. Da una parte, fanno capire alla gente come funziona l'operazione (non l'opera), sono un andare verso, dall'altra sono un lavoro sul metodo. L'opera d'arte contemporanea si nasconde, è dissimulata nella realtà, perché in una società sempre più mediatica tutto è pubblico. All'opposto di quanto fece Duchamp, oggi l'opera rischia di voler uscire dal museo e perdere la sua aura. Per far sì che questo non accada, siamo noi spettatori, a cominciare dall'artista che è il primo spettatore, a dovere caricare il nostro sguardo di auraticità, a guardare le cose in senso artistico. Si tratta quindi nel suo complesso di un atteggiamento metodologico.
I progetti all'ingresso della mostra fanno emergere tutta la parte metodologica progettuale che fa parte del mio lavoro. L'opera è costituita dal metodo, come mettere a disposizione tutto il budget di produzione per restituire ai cittadini un luogo a loro molto caro.
Fino al 3 febbraio 2013
Alberto Garutti. Didascalia / Caption
PAC Padiglione d'Arte Contemporanea, Milano