Emigrati in Germania, esposti in Biennale #2

Seconda parte sugli artisti, molti, che risiedono a Berlino presentati in Illuminazioni.

Dalla capitale tedesca guardano all'Italia Monica Bonvicini e Karl Holmqvist. Poeta, artista, performer e attivista atipico, Holmqvist abbraccia nelle sue performance una molteplicità di mezzi espressivi.
Ai Giardini, nel Palazzo delle esposizioni, l'artista svedese presenta un parallelepipedo a base quadrata, che sulle quattro testate riporta, scolpita sul travertino, l'epigrafe mussoliniana in Palatino maiuscolo: «Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori». È il modello architettonico in scala 1:36 dell'edificio che sorge nel quartiere EUR a Roma, Il Palazzo della Civiltà Italiana.
Disegnato nel 1937, da Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano, l'edificio fu scelto da Mario Piacentini per celebrare il ventennale del regime fascista, in occasione dell'Esposizione Universale del 1942. La scultura è parte dell'installazione Untitled dell'artista quarantaseienne che la realizza nello stesso materiale che ricopre l'edificio originale e che gli architetti usarono per enfatizzare i valori di romanità a cui il regime si ispirava.
Posta al centro di una stanza le cui pareti sono ricoperte da frammenti di scrittura scomposti e allineati in modo "casuale", la scultura dell'artista svedese vuole esprimere il divario tra la retorica di stato e l'Italia che incontri al supermercato, rivelando in aggiunta lo stallo ideologico del nostro tempo. "La mia - spiega Holmqvist- è una forma di sovversione che parla a bassa voce".
In alto: ritratto di Monica Bonvicini; qui sopra: ritratto di Karl Holmqvist. Giardini.
In alto: ritratto di Monica Bonvicini; qui sopra: ritratto di Karl Holmqvist. Giardini.
Un enorme parallelepipedo di tufo che una squadra di operai si affannava a smantellare con trapani elettrici è invece l'opera che Monica Bonvicini colloca all'ingresso dei Giardini del'Arsenale nella Biennale del 2005.
Già Leone d'oro nel 1999, l'artista veneziana, raggiunge Berlino ventunenne nel 1986. Pensa di rimanerci pochi giorni, poi un paio di mesi ma vi si stabilisce perché trova una città molto abbordabile, senza la tensione di New York. E in qualche modo simile a Los Angeles.
In questa Biennale presenta 15 Steps to the Vergin, un'installazione di grande formato con la canzone di Mina "La musica è finita" in sottofondo. Piattaforme e gradini, a volte retroilluminati, alludono all'andamento curvo delle scale raffigurate nella Presentazione della Vergine dipinta da Tintoretto tra il 1553 e il 1556. Il suo lavoro abbonda di riferimenti specifici a discorsi teorici, politici, artistici e architettonici. Come Not For You, un'opera del 2006 in cui le lampadine che ne compongono la scritta si spengono e si accendono con il sapore di un lunapark antico, anche 15 Steps to the Vergin ha qualcosa del teatrino, o di uno spettacolino di periferia. È così che Bonvicini spiega la sua opera all'Arsenale: "Perché descrivono bene l'anima italiana. È anche un riferimento a un certo tipo di Italia, con le veline. Per quello ci metto anche Mina. Un tempo c'era Canzonissima (una popolare trasmissione televisiva di varietà, mandata in onda dalla RAI dal 1956 al 1975 n.d.r.), però insomma adesso ci sono altri show che vanno in onda. È un tipo di Italia che spero tanto finisca."
Klara Lidén, veduta parziale dell'installazione. Arsenale
Klara Lidén, veduta parziale dell'installazione. Arsenale
L'opera di Klara Lidén non è meno provocatoria ma, come per Nairy Baghramian, il loro è un modo più delicato di fare politica.
Una stanza bianca, con frammenti di archeologia industriale che sembrano opere contemporanee, è allestita con bidoni dell'immondizia presi dalle strade di alcune città ed esposti all'Arsenale come sculture o appesi come se fossero quadri, molti anni dopo Duchamp, lascia scegliere se scandalizzarsi o partecipare all'estetizzazione di un ready made già vintage e impregnato di tracce urbane. Visitandola si prova una sensazione di leggero imbarazzo. Un malessere probabilmente simile a quello del passeggero del metro di Stoccolma che nel film Paralaysed assiste alla danza, maldestra e adolescente, inscenata da Lidén sul mezzo pubblico. Quasi sempre autrice e protagonista delle proprie videoinstallazioni, questa giovane artista svedese di trentadue anni studia arte ed architettura a Berlino, dove si trasferisce senza mai terminare i suoi studi per dedicarsi interamente al suo lavoro. Lidén, cui la Biennale dedica una menzione speciale "a conferma della forza, intelligenza e rabbia insite nel suo lavoro", esplora i limiti fisici, psicologici e sociali degli spazi che abitiamo. Le sue opere provocano spesso nello spettatore lo smarrimento e insieme quella sensazione leggermente claustrofobica che si prova nell'osservare la violazione di convenzioni sociali non scritte che però regolano la nostra vita.
Opere critiche, che mettono l'accento sulla "questione" della democrazia, cosa rappresenta per il fare arte e cosa l'arte può fare per essa
Ritratto di Nairy Baghramian. Arsenale
Ritratto di Nairy Baghramian. Arsenale
Se Lidén, denuncia "con uno spirito debordiano di urbanizzazione anarchica" l'alienazione della quotidianità occidentale, l'artista iraniana Nairy Baghramian presenta un lavoro molto raffinato e racconta dello stretto rapporto che lega il fare arte alla democrazia. Per spiegarlo usa le parole che descrivono un formaggio francese, Le fromage de tête, che qui però alludono al rapporto tra i materiali che servono alla produzione di un contenuto e viceversa. L'opera è composta da una serie di piatti di gomma fusa che costituiscono le forme negative dei materiali accumulati. Nelle sue installazioni il contesto esistente (l'esposizione, lo spazio, l'istituzione) è intrinseco alla concezione e percezione della sua opera.
Baghramian raggiunge Berlino quattordicenne fuggendo con la famiglia dall'Armenia. Incrocia il teatro tedesco, la letteratura e la danza contemporanea, che diventano il contesto della sua stessa opera perché - spiega - "non sarebbe possibile portare in mio lavoro in Arabia Saudita, in Cina o in un paese i cui governi non consentono di cogliere il significato profondo dell'arte contemporanea. La libertà è la condizione necessaria per produrre arte, e in alcuni stati questa libertà manca".
Cyprien Gaillard, <i>Ankor Beer</i>, veduta dell'installazione
Cyprien Gaillard, Ankor Beer, veduta dell'installazione
Ultimo e il più giovane del gruppo di emigrati in Germania, Cyprien Gaillard, usa spesso l'ironia per rivelare l'oscurità politica delle contaminazioni culturali del globalismo edonistico. Come al KW Institute of Contemporary Art di Berlino l'artista, invitava il pubblico a consumare una grande piramide di scatole di birra Efes, importate dalla Turchia in Germania, Gaillard, Classe 1980, francese con studi svizzeri, presenta in Biennale Ankor Beer una raccolta di cartoline turistiche ricoperte con le etichette delle bottiglie di birra. Pensando a The Recovery of Discovery, la brillante opera berlinese di Gaillard, non potevamo non terminare questa carrellata di artisti emigrati a Berlino con il tonalismo contemporaneo e la "Chromophilia" di Das Institute, un'immaginaria agenzia di import-export fondata da due artiste che da Berlino si sono trasferite a New York: Kerstin Brätsch e Adele Röder. La loro opera è sopratutto colore. I pannelli a stampa digitale di Röder o dipinti di Brätsch, esposti in Biennale con il titolo di Blocked Radiants, sono infatti soprattutto questo: colori. "Che annichiliscono, inglobando ogni cosa - come scrive Amy Sillman - colori-veleni, colori-cure, colori che si mescolano sulla tavolozza per non essere mai più rintracciati. Il colore che scaturisce dal corpo, il colore che promana dal movimento del corpo-macchina-produttiva, infine anti-colori, colori-ombre e colori digitali. I colori dell'iPhone manipolati con le dita sul minuscolo schermo" Per questo la loro opera è corrosa da un senso di urgenza che incarna l'immediatezza del nostro tempo.
Ritratto di Das Institute (Kerstin Brätsch e Adele Röder)
Ritratto di Das Institute (Kerstin Brätsch e Adele Röder)

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