"Come i marxisti, come i liberali, Le Corbusier immaginava per l'uomo immobili di uffici, squadrati, utilitari, senza decorazioni di alcun genere; e degli immobili abitativi pressoché identici. (…) Fra le strutture di lavoro e le strutture di abitazione, lo spazio libero era riservato alla natura selvaggia: l'umanità doveva limitarsi a moduli abitativi circoscritti in mezzo alla natura, ma che non dovevano in alcun caso modificarla. È spaventosamente primitivo, quando ci si pensa, è una regressione terribile rispetto a qualsiasi paesaggio rurale – mescolanza sottile, complessa, evolutiva di prati, campi, foreste, paesi. È la visione di uno spirito brutale" (Michel Houellebecq, La carta e il territorio, 2010). L'utopia esige la negazione del tempo. Un'utopia realizzata è definitiva, conchiusa: non può evolversi, perché ciò implicherebbe un errore, o una mancanza di stabilità nell'utopia come era stata concepita. Questa sembra essere l'origine della brutalità che Michel Houellebecq, nel suo ultimo romanzo, ascrive alla visione di Le Corbusier: la mancanza, al suo interno, di spazio evolutivo (per la natura, per l'uomo, per l'architettura stessa); l'esclusione, dal suo linguaggio, della continuità. È una mancanza, inoltre, di cui partecipano anche i progetti in 3D dei signature buildings più recenti, così svelando la propria aspirazione utopica: superfici bianchissime, renderizzate; orizzonti vuoti e immacolati tutt'intorno, che mai si popoleranno; alberi proporzionati, allineati, identici; sparuti gruppetti di persone al loro interno, che si guardano o si tengono per mano, che hanno dei bambini destinati a non crescere mai, che non hanno ombra. È questa mancanza delle utopie che è al centro dell'opera di Dionisio González. I cicli fotografici che González realizza dal 2004 si presentano, a un primo sguardo, tersi, luminosi e utopici come il migliore dei rendering. Le persone, le imprecisioni formali, le dissonanze sono bandite dalla composizione delle sue stampe in grande formato: solo vi troneggia un rigore quasi astratto, fatto di grandi facciate, simmetriche e colorate. In tutta questa raffinatezza formale, una caratteristica delle foto di González si perde all'occhio, perlomeno a prima vista, e ci vuole un'insistenza particolare sui dettagli per rivelarla: le sue foto, infatti, non raffigurano che slum.
La brutalità delle utopie
I mondi apparentemente fluidi, ma stridenti di Dionisio González.
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- Vincenzo Latronico
- 25 febbraio 2011
- Siviglia
Slum modificati, in realtà. A ben vedere, infatti, in tutte le composizioni di González sono presenti delle elaborazioni, delle interpolazioni al computer. Fra una parete di lamiera e un container, fra una baracca e un divisorio in legno marcito, González inserisce moduli architettonici di riconoscibile stile contemporaneo, in vetro e metallo, geometrici ed essenziali. La loro incongruità, una volta rilevata, è evidente: tanto per ragioni di fattibilità strutturale quanto, più semplicemente, per plausibilità economica; eppure, a prima vista sembrano perfettamente amalgamati alle baraccopoli in cui sorgono, tanto da parerne escrescenze spontanee, elementi naturali, organi. In un altro ciclo, González applica la stessa strategia immaginativa a un insediamento galleggiante della baia di Halong, integrandolo con architetture avveniristiche che riprendono, al contempo, le forme abitative tradizionali e i profili insulari che delimitano il bacino. Anche qui, a prima vista, i suoi interventi sono invisibili: e persino una volta notati è difficile dire, con precisione, cosa ci sia in essi di falso, cosa c'è che non va.
Cosa c'è che non va? L'inserimento organico e il rispetto del preesistente sono una bandiera di molta architettura contemporanea; ma naturalmente, sottolinea ironicamente González, questo rispetto e questa organicità le sono in molti casi intrinsecamente impossibili. E proprio tale impossibilità fa tornare in mente la brutalità delle utopie, la loro mancanza di continuità, così rivelando l'aspirazione utopica che si cela nel più ordinario dei rendering per una torre d'appartamenti di grido. Le strutture immaginate da González sono, in questo senso, quanto di più rispettoso si possa immaginare nel loro impiego di moduli formali preesistenti, nella loro filosofia di modestia estetica e integrazione. Eppure, al di là della prima impressione, alieni sono e alieni rimarranno, in quel contesto. Per quanto un braccio bionico possa essere integrato al corpo umano, pare dire González, non ne sarà mai un'evoluzione: resterà sempre un innesto più o meno rigettato.
Fra una parete di lamiera e un container, fra una baracca e un divisorio in legno marcito, González inserisce moduli architettonici di riconoscibile stile contemporaneo, in vetro e metallo, geometrici ed essenziali.
In questo senso, anche l'omogeneità al contesto ostentata dalle interpolazioni architettoniche di González assume una luce perlomeno ambigua: se pur sempre di un corpo estraneo si tratterà, la sua somiglianza all'ambiente originario potrà sembrare una sorta di mascheramento, di adattamento parassitario. Anche qui, la semplice giustapposizione orchestrata da González sembra un commento disincantato e caustico sui modi che ha l'architettura per dialogare con ciò che la circonda. Queste forme sembrano simili e continue, pare dire González: ma non lo sono. La valenza politica di questa negazione è chiara, dalla scelta di accostare in modo stridente, ma apparentemente fluido, realtà economiche e sociali incompatibili: richiama alla mente le torri di lusso dei quartier ex-popolari, le cattedrali di cristallo piombate senza preavviso nelle periferie delle metropoli europee. Quelle, sotto le lamiere, sono le baraccopoli di Dionisio Gonzáles; quello è lo stridore. Le soluzioni di continuità non si rimarginano nel tempo: l'evoluzione organica non ne liscia le asperità, non ne ingloba la superficie. L'attacco di un arto cibernetico non si cicatrizzerà mai, le piastrine non coagulano la lega di titanio; allo stesso modo, nessuna trasformazione paesaggistica potrà addolcire il contrasto fra le strutture immaginate da González e le baraccopoli reali in cui si inseriscono. Resteranno lì, incongrue e geometriche, disabitate, eteree, fino a quando le crepe e l'incuria non avranno la meglio sulla loro lucentezza. Questo, forse, è ciò che più di ogni altra cosa le accomuna alle utopie moderniste: falliranno. Vincenzo Latronico
Dionisio González è nato nel 1965 a Gijón, Spagna e vive a Siviglia. È professore ordinario presso la Facoltà di Belle Arti dell'Università di Siviglia. Tramite video e foto da lui scattate e successivamente manipolate al computer, presenta immagini di insediamenti spontanei alterati attraverso inserti di frammenti di architettura contemporanea, mimetizzati nel contesto. Il suo interesse è rivolto al rapporto tra i gruppi sociali e alle strategie attraverso cui le comunità più deboli si organizzano per proteggere la propria cultura e la propria economia.