Mark Wigley*
L'artista danese Kasper Akhøj lavora con fotografie, proiezioni di diapositive e installazioni di scultura, mettendo insieme fatti e testimonianze in un modo che assomiglia al metodo dello storico. Con la sua opera propone un contrappunto all'ufficialità della storia scritta del progetto e dell'architettura moderna. Attraverso l'accumulazione delle narrazioni, delle stratificazioni storiche, delle associazioni, delle digressioni e del gioco formale riuniti insieme, Akhøj giunge a ridare un'immagine a significative ma mal note manifestazioni architettoniche che sono state marginalizzate dalla forza delle circostanze. La completezza del suo metodo di lavoro fa da contrappunto alla generale volatilità oggi più o meno onnipresente, nell'arte come nella vita.

Il progetto Abstracta (work in progress fino al 2006) riguarda il sistema espositivo modulare progettato negli anni Sessanta dall'architetto Poul Cadovius. Nella sua opera segue il percorso di un particolare oggetto attraverso una quantità sorprendente di spazi e di narrazioni. Nella precedente opera Untitled (SCHINDLER/GRAY, 2006) mette in rapporto le storie di due opere della prima modernità: la casa di Rudolph M. Schindler in Kings Road a Hollywood (1921-1922) e, ancora, la villa E-1027 di Eileen Gray a Roquebrune-Cap Martin. In un'installazione in cui viene proiettata una serie di diapositive, il commento sonoro racconta i percorsi collegati che hanno dato luogo a una narrazione circolare d'amore, omicidio e rovina che non starebbe male sulle pagine di un quotidiano popolare.

Angelique Campens: La storia dell'architettura e del progetto è il punto di partenza della sua opera. Da dove viene questa predilezione?
Kasper Akhøj: Difficile rispondere. Un interesse per vari tipi d'architettura e di progetto, per i temi urbanistici in generale e un interesse per l'ambiente costruito ci sono sempre stati, da che mi ricordo. Una volta ne ero meno conscio, ma oggi se guardo indietro mi rendo conto che ci sono sempre stati. Anche se nella mia famiglia non ci sono architetti. Ma mio padre è fotografo e lavora molto sulle arti applicate, sul design e anche sull'architettura; per cui qui c'è sicuramente qualche legame, quando passavo il tempo nel suo studio da bambino e via dicendo. Certi particolari di questo ambiente hanno lasciato su di me un'impronta duratura, credo.

Forse questo deriva un po' dal provare interesse per il materiale e per il contesto, invece che per la persona o per il nome che stanno dietro un'opera. Nel progetto Abstracta, per esempio, non avevo idea di quale architetto o progettista ci fosse dietro. Quando l'ho visto nel corso di un viaggio nell'ex Jugoslavia, ho pensato che si trattasse di un progetto generico. E ho notato che in un certo periodo era stato molto popolare, per lo meno fino a qualche tempo fa. E ce n'erano anche parecchie varianti, con il solo cambiamento di particolari secondari. Pareva che fosse una specie di Kalashnikov delle scaffalature metalliche jugoslave o dei sistemi espositivi modulari, perché all'epoca lo si poteva davvero vedere dovunque. E dovunque non aveva subito grandi cambiamenti dall'epoca della guerra. Aveva una sua presenza elegante, da sistema che porta in sé un altro sistema, con un collegamento con il passato. È diventato davvero una specie di simbolo di un rapporto del passato e di una rete del passato. Ed è stata una sorpresa assoluta per me iniziare a lavorare al progetto e scoprire che non era un Kalashnikov jugoslavo ma danese.
Non avevo mai sentito nominare Cadovius. Certo aveva una sua notorietà, negli anni Sessanta e Settanta, ma non tanto da durare nel tempo. In realtà con Abstracta vinse una medaglia d'oro all'Esposizione universale di Bruxelles del 1962, il che significa che la mostra aperta ora a Wiels rappresenta il ritorno del sistema nel luogo in cui i resti del sistema danese dell'epoca si trovano ancora in giro per la città. Abstracta è stato prodotto, o copiato, di volta in volta in Danimarca, in Cina, in Jugoslavia e infine negli Stati Uniti. A quei tempi la Cina comunista e la Jugoslavia erano "all'altro capo del mondo", per così dire, o comunque al di là degli orizzonti di Cadovius, che non si rendeva conto che il suo sistema si era diffuso in quelle parti del mondo sfuggendo al suo controllo. La situazione oggi è ovviamente molto differente. Ho sentito recentemente qualcuno commentare che il Congresso del Partito comunista cinese del 1992 ha cambiato il mondo, sul serio, molto più dell'11 settembre. Si è svolto mentre in Jugoslavia infuriava la guerra e subito dopo la caduta del Muro di Berlino, ed è stato un avvenimento che ha portato alla situazione globale dell'economia di oggi. Mi pare che lo slogan del congresso avesse a che fare con la costruzione di un'"economia socialista di mercato", cosa che all'epoca causò parecchie perplessità.

Nel senso di come si è sviluppato? Casa Schindler oggi è uno spazio espositivo e fa parte di un piccolo gruppo di case moderniste della Costa occidentale che si possono visitare a Los Angeles, come la Case Study House di Eames. Si può andare a visitarle se si è interessati alla storia dell'architettura moderna e del Modernismo.
Ma spesso, come ho scoperto, nella storia di questi primi siti sperimentali manca lo sfondo relativo ai motivi per cui per esempio Schindler decise di costruire quella casa in quel particolare modo, e anche del ruolo che sua moglie Pauline ebbe nel progetto. La concezione iniziale che sta dietro il progetto e la specifica storia che lo collega al luogo nel periodo tra la costruzione e la trasformazione in museo non erano state oggetto di scrittura e ci capitai sopra davvero per caso. Stavo parlando con uno storico dell'architettura che aveva lavorato a Los Angeles negli anni Ottanta e una volta era passato vicino a Casa Schindler per dare un'occhiata senza personali interessi specifici. Trovò l'edificio in stato fatiscente, ma anche persone – un piccolo gruppo di appassionati – che stavano lavorando al suo restauro. Era ridotto molto male, dal punto di vista di uno storico dell'architettura. Quando lo visitò c'erano ancora parecchie tracce dell'ultimo inquilino, che era l'ex moglie di Schindler, Pauline. Tracce di una vita completamente diversa condotta in quel luogo, magari completamente dimentica di quella dell'architetto. Lo storico mi suggerì un paio di spunti per un'altra storia che poteva celarsi tra le macerie che il gruppetto dei restauratori andava portando fuori con le carriole. Cominciai a rifletterci più a fondo e a parlare con un po' di gente. Prima di tutto andai a parlare con l'architetto che si occupava del restauro, che è anche il direttore dell'organizzazione che si occupa della casa. È in qualche modo parte integrante di tutta questa storia complicata e mi ha fornito molte informazioni, molti documenti e molte immagini del periodo del restauro e dell'epoca in cui la famiglia Schindler viveva lì.
È tutto nero su bianco?
No, all'epoca non è stato scritto molto. Lui mi ha dato alcuni scritti, ed era anche particolarmente interessato a Pauline Schindler, ma in una prospettiva molto differente. All'epoca, comunque non erano disponibili molte informazioni. Le fonti della proiezione sono un misto di documenti storici, di discorsi ufficiali sul progetto, più tutti gli altri, più personali, racconti ed elementi che gli sono collegati che sono riuscito a riportare alla luce. Insomma un misto di materiale ampiamente pubblicato e di parecchio materiale che è stato scoperto come parte del processo.

Sì, dalla teoria dell'architettura ai pettegolezzi locali. Ben presto si forma una grande rete di persone che coinvolgo nei progetti e naturalmente ciascuno ha interessi differenti, e in settori differenti, ed è proprio così che mi piace navigare.
Lei ha lavorato a due progetti relativi alla storia della Villa E-1027, che chiaramente è un edificio importante nella sua opera. Come è nato il suo interesse per la Villa E-1027?
Sapevo della casa di Eileen Gray da molto tempo, per interessi generali e per gli studi d'architettura. L'idea di Welcome (To The Teknival) venne dopo la realizzazione (nel 2006) di una proiezione di diapositive cui avevo lavorato per un bel po' di tempo dal 2003 al 2005. Mentre mi trovavo lì venni a sapere del progetto di restaurare la casa, ma in quel momento, nel 2005, un primo progetto di restauro era stato appena cancellato. Avevano deciso di realizzare il progetto nel senso tradizionale e di riportare la casa al tempo in cui era stata appena realizzata, nel 1929, il che voleva anche dire eliminare i murali di Le Corbusier. I piani erano stati elaborati e stavano per iniziare, ma alla fine non ne fecero niente. Ci volle un altro paio d'anni prima che venisse messo a punto un altro piano, di cui fu incaricato un altro architetto. Il progetto comprendeva la conservazione dei murali di Le Corbusier. Rimasi per così dire in attesa che il lavoro iniziasse e mi ero reso conto da un po' che volevo tentare di seguire il processo di restauro, documentandolo attraverso il portfolio originale di Eileen Gray. Attesi per due anni l'inizio dei restauri, per cui ebbi modo di lavorare al progetto.
Lei non scrive le sue storie. C'è spazio per la narrativa?
Tento, credo, di restare il più possibile aderente ai materiali, ma uso ciò che trovo lungo un cammino che si muove su più percorsi e, se queste cose possono non essere necessariamente vere, sono comunque parte del materiale che metto insieme; perciò in questo senso sì, c'è uno spazio per la narrativa – un tipo di narrativa creato da altri.
Credo sia importante lasciare i materiali aperti a qualche tipo di funzione narrativa, ma non è una cosa di cui io sia l'unico autore.
* Mark Wigley, "Whatever happened to Total Design?", Harvard Design Magazine, n. 5 (estate 1998), p. 25

