La mostra dedicata a Dino Gavina, dove per la prima volta il design entra nel circuito del festival musicale di Spoleto, è l'occasione per parlar del tuo lavoro. Innanzitutto ci piacerebbe capire come hai cercato una relazione con Dino Gavina, un personaggio difficile da definire, non proprio un imprenditore nel senso classico del termine, e comunque una figura da sempre interessata agli incroci tra arte design forte della convinzione che "la progettazione è la più umanistica delle azioni".
Non ho avuto il piacere di conoscere Dino Gavina di persona. Conoscevo però la sua storia della collaborazione con gli artisti, con Man Ray, Sebastian Matta, Meret Oppenheim…
Come un artista si confronta con il design – rompendo il mito della funzionalità, e allargando gli orizzonti del progetto – è un tema che mi interessa particolarmente. Così quando mi hanno chiesto di partecipare alla mostra e scegliere uno dei miei lavori perché si confrontasse con lo specchio di Man Ray prodotto da Gavina sono stato lusingato perché nella mia formazione, a parte il cinema, ho studiato anche design.
Sono sempre stato attratto dalla metodologia del design. Porsi dei problemi e arrivare a trovare soluzioni attraverso un sistema progettuale in grado di mettere in relazione discipline diverse,.. che sa interpretare in chiave umanistica le istanze dell'industria … sono questioni che mi hanno sempre interessato. Penso che l'idea stessa del progetto sia una parte importante anche del mio lavoro…
Gavina si è avvicinato al design attraverso gli artisti: fu Lucio Fontana a introdurlo ai fratelli Castiglioni. In seguito, quando ha fondato il Centro Duchamp ha portato gli artisti a lavorare sugli oggetti in funzione anti-razionalista. Tra questi Man Ray che ha disegnato lo specchio su cui sei stato invitato a lavorare per la mostra.
Quando mi hanno chiesto di lavorare sullo specchio di Man Ray "le Grand Trans-parent" - che è poi una citazione di Duchamp - per me stata l'occasione per esprimere un omaggio a questi grandi artisti che hanno influenzato la mia visione del mondo… Ho pensato a un cerchio che si chiude.
Evidentemente non era un confronto facile. Mi è venuta in aiuto però una sorta di visione… Negli ultimi due anni della mia vista sono stato in Siberia per seguire il progetto di un film su una comunità di cacciatori di balene nello stretto di Bering: la terra più estrema che esista. Gli ultimi tre film che ho girato sono dedicati a quei luoghi estremi dove l'uomo vive una solitudine totale. Il primo è girato in Patagonia, il secondo nel deserto del lago di Aral, in Uzbekistan, e in quest'ultimo, in Siberia appunto.
Ho vissuto insieme ad una delle ultime comunità di cacciatori di balene che praticano una di quelle ultime professioni millenarie che ancora sopravvivono. Parte di questo materiale è stato usato in un documentario che ho presentato in diversi festival, tra cui quello di Torino.
Durante un viaggio di preparazione per il documentario, mi è capitato di girare il video di una gigantesca onda congelata lungo le rive della costa dove vivono questi cacciatori. Dal disegno delle forme di ghiaccio sembrava che il tempo, all'improvviso, si fosse fermato. Così, quando ho pensato allo specchio di Man Ray, mi è sovvenuta l'immagine di questa spiaggia magica sullo stretto di Bering. Nel video, accanto all'immagine dell'onda dei ghiaccio, l'unica presenza in movimento è il volo di un uccello che rompe l'impressione di trovarsi di fronte a una fotografia.
Lo specchio è spesso rappresentato quale soglia oltre la quale è possibile estendere i limiti della percezione per rimandare a un livello ulteriore di coscienza.
L'idea era quella di tenere l'immagine fissa dell'onda di ghiaccio quasi fosse fermo-immagine, immobile; in realtà invece, è un film girato in tempo reale. Il video dura una trentina di minuti.
Contemporaneamente dallo specchio si diffonde il suono della voce di un vecchio cacciatore di balene che parla nella sua lingua originale – il Chukchi – una lingua in via di estinzione. Mi interessava fondere lo sguardo dello spettatore, che guarda sè stesso nello specchio, con una voce estranea, che proviene dall'altro lato del mondo.
Pensi che la serie di lavori che hai intitolato Fieldworks, dove lavori in presa diretta, si possa considerare un'estensione della fotografia di paesaggio?
Sotto certi aspetti la mia metodologia di lavoro può essere considerata simile a quella di un antropologo, anche se non sono antropologo e non pretendo di esserlo. Mi interessa però molto il metodo con cui l'antropologia affronta la realtà: il modo in cui l'analizza, con cui entra in relazione diretta con il soggetto di studio. Per me i Fieldworks, (questi lavori sul campo appunto), sono un po' come degli appunti: uso la telecamera come si può usare una polaroid, un taccuino… mi servono sempre per trascrivere, per raccogliere degli istanti, dei momenti, soprattutto per capire il paesaggio. In seguito mi aiutano per il film. Evidentemente molti di questi Fieldworks seguono anche altri circuiti. Quando mi chiedono di cambiare l'asse fra il documentario puro e il lavoro d'arte contemporanea inoltre, mi danno la flessibilità di entrare nell'uno o nell'altro mondo. Mi aiutano comunque a sviluppare la ricerca, a capire come trasmettere l'esperienza che vivo quando viaggio.
Dato che sono lavori in presa diretta, che non prevedono montaggio, come ti prepari? Studi prima di recarti in loco? Fai dei sopralluoghi, ti documenti, oppure cerchi di mantenerti il più possibile "puro", con uno sguardo "vergine", per le riprese in tempo reale?
Di solito un lungo processo di ricerca precede il momento di girare. Forse quello della progettazione di un lavoro è il periodo più bello perché ti permette di entrare in contatto con milioni di realtà relative al luogo a cui sei interessato. Una volta che hai raccolto tutte queste informazioni – hai abbozzato una sorta di lettura – inizi a mettere a fuoco i punti che ti interessano e che potrebbero contenere una relazione con quello che vuoi veramente raccontare: piano piano si va costruendo questa sorta di narrazione…. Questa fase la considero come se stessi costruendo gli occhiali con i quali devo andare a girare. Quando, per esempio, sono arrivato in Siberia la prima volta avevo già in testa quegli occhiali che avevano richiesto più di un anno di ricerca e che ti permettono di intuire esattamente quello che vuoi raccontare, quello che vuoi vedere. Naturalmente capita di avere un'idea di una certa realtà, di arrivare con una storia, e trovare tutto diverso. L'incontro con le persone serve a cambiare la tua percezione. Questo però, non toglie importanza della ricerca.
Consideri il tuo lavoro un'opera di documentazione?
Voglio che lo sia. Non c'è più grande piacere di sapere di avere questa capacità di documentare momenti sull'orlo dell'estinzione.
Il valore ultimo di questi lavori è quello di documentare questi momenti sfuggenti, questi personaggi destinati a scomparire. Raccoglierne le tracce.
Il senso del dramma di quello che sto facendo è la coscienza di stare ricercando nelle periferie della civilizzazione personaggi con un futuro a rischio, situazioni in via di sparizione, paesaggi sull'orlo dell'estinzione. Nello stesso tempo so che non durerà neanche lo sguardo con cui sto vedendo perché anch'io cambio. Tutto cambia.
Intervista a Carlos Casas
La mostra dedicata a Dino Gavina durante il festival di Spoleto è l'occasione per parlare con Carlo Casas del suo lavoro di film maker e artista.
View Article details
- Francesca Picchi
- 12 agosto 2009
- Spoleto