Una domenica mattina dell’ottobre del 1969, Robert Smithson, in occasione di una mostra personale alla galleria L’Attico di Roma, realizza Asphalt Rundown: una colata di asfalto in una cava di selce. Dopo 38 anni, Sue Spaid e Patrizia Giambi vanno alla ricerca di ciò che è rimasto di questo lavoro dimenticato. Testo di Patrizia Giambi.
Ciò su cui voglio riflettere è il fenomeno per cui la superficie del pianeta è largamente rivestita del proprio interno. Il costante trapasso interno/esterno assume, via via, forme e segni diversi. In pratica, cambiano le culture, ma non gli elementi che le compongono. L’asfalto, materiale dalla fortissima personalità oggi connotata negativamente, è presente in grande quantità nel sottosuolo e sin dall’antichità è conosciuto per costruire e fertilizzare: dalla civiltà degli assiro-babilonesi per i famosi giardini pensili; dagli spagnoli in Sudamerica; e lo ritroviamo anche in pittura sicuramente fino a tutto il Settecento.
Il 9 gennaio 2005 con Sue Spaid ho localizzato il luogo esatto teatro di Asphalt Run Down, opera di Robert Smithson realizzata nel 1969 in un sobborgo di Roma. Il luogo è una cava di selce. Sottolineo subito che anche la selce è un materiale estrattivo usato soprattutto per rivestimenti stradali e in edilizia. Sue Spaid ed io non abbiamo rinvenuto la colata di asfalto. Ovviamente, negli anni l’asfalto si è disintegrato, ma sul versante dello scavo su cui fu performata l’opera abbiamo trovato invece una rigenerazione vegetale della medesima superficie e la forma della colata immortalata in fotografia, circondata dal terreno nudo. In assenza di dichiarazioni dell’artista, posso ipotizzare che il lavoro si pone come ordinatore o ri-ordinatore del tessuto del suolo nella sequenza pietra-selce-durezza-asfalto-viscosità-vegetale-aria-luce, e posso notare che uno dei suoi risultati è di aver fertilizzato il suolo.
Trent’anni anni dopo quel 1969, io stessa ho subito il fascino dell’asfalto in quanto materiale organico e inizialmente l’ho utilizzato nel significato negativo veicolato nella contemporaneità. Nel 1996 nella mia mostra “Burning Colors” alla Lasca Gallery di Los Angeles ho presentato 54 orsacchiotti imbevuti asfalto, con un occhio all’organizzazione sociale e al sistema di valori fortemente edulcorato della società americana. Ma non mi è bastato. Il senso di collasso imminente che avverto nel mondo occidentale mi ha spinto a cercare nuovi passaggi, ad attraversare la strada, verso Atlantide. Sono intervenuta direttamente sul paesaggio urbano, sull’asfalto delle città. Ho dipinto vere strisce pedonali, ma clandestine, di notte, con altre persone o gruppi (Ravenna, Forlì, Bologna, Genova, Milano, Nizza, Amsterdam e Los Angeles).
“(Giambi) impiega una convenzione per ottenere un rallentamento e un nuovo passaggio, effettivamente utilizzabile” scrive Giorgina Bertolino, “la mattina seguente qualcuno userà le strisce dipinte di fresco fino a quando non saranno individuate come abusive…. L’operazione (…) non è volta alla registrazione analitica dei cosiddetti comportamenti viabili, ma a una loro alterazione provocata dall’interno del codice. Oggetto di tale provocazione è l’idea stessa di funzionalità e soprattutto del suo coincidere esclusivo nella norma. Le strisce clandestine, quelle cioè che non appartengono alla geometria della circolazione burocratica, sono allora delle trappole semantiche perché mettono in crisi la lettura della forma codificata facendola inciampare nella funzione”. (Zebra Crossing, a.titolo di edizione, Torino, 1998, pp 45/46)
La colata informe e la geometria delle strisce fatalmente svaniscono, agisco in una sorta di archeologia del presente, nell’ambiente selvaggio a caccia delle vestigia dell’opera di Smithson e forse un giorno a caccia di strisce pedonali clandestine nei centri urbani.
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La mappa del tesoro
Una domenica mattina dell’ottobre del 1969, Robert Smithson, in occasione di una mostra personale alla galleria L’Attico di Roma, realizza Asphalt Rundown: una colata di asfalto in una cava di selce. Dopo 38 anni, Sue Spaid e Patrizia Giambi vanno alla ricerca di ciò che è rimasto di questo lavoro dimenticato. Testo di Sue Spaid Fotografia di Stefano Graziani A cura di Francesca Cogni, Patrizia Giambi, Sue Spaid
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- 02 aprile 2007