Germano Facetti ricorda Lodovico Barbiano di Belgiojoso
Germano Facetti è nato a Milano nel 1926, in una famiglia di artigiani. La madre, di famiglia contadina, preferisce risparmiare sulla carne per acquistargli un libro, meglio se con le figure, la rilegatura in tela e le lettere in oro. Il nonno, scultore, avversario del lavoro ripetitivo e amante della sapienza artigianale, lo educa a conoscere i materiali e, trasmettendogli l’avversione per il fascismo, ad amare la libertà. Gli insegnamenti del nonno lo accompagneranno per tutta la vita. Nel 1943, poco più che adolescente, Germano decide di partecipare alla Resistenza e intraprende un’attività di informazione con il coetaneo Enrico Viganò, nella speranza di entrare in contatto con le formazioni partigiane. Dopo i primi bombardamenti a Milano, incontra un sottufficiale in fuga al quale fornisce abiti borghesi; in questa circostanza gli viene affidata una cassa di armi che nasconde in casa, sotto il letto. La notte del 4 novembre Germano ed Enrico vengono sorpresi dalla polizia in violazione del coprifuoco mentre affiggono manifesti; nella perquisizione delle loro case vengono trovate armi, volantini, registrazioni dei movimenti delle pattuglie tedesche. Sospettati di essere parte di un’organizzazione sovversiva, vengono arrestati e duramente torturati, senza esito, non avendo nulla da confessare. Dopo alcuni mesi di detenzione a S. Vittore, la notte del 18 febbraio 1944 vengono condotti alla Stazione Centrale e fatti salire, insieme a 83 compagni, su un treno merci che, dopo tre giorni di viaggio in condizioni terribili, conclude la sua corsa a Mauthausen. Aldo Carpi, pittore milanese suo compagno di viaggio, nel suo “Diario di Gusen” ricorda: “Il giovane Germano Facetti cantava…”. Germano viene immatricolato al n. 53396 e il 7 aprile, dopo la quarantena, è trasferito al vicino campo di Gusen 1. Lodovico Barbiano di Belgiojoso arriva a Mauthausen il 2 agosto, dopo un mese e mezzo di detenzione a Milano e tre mesi nel campo di Fossoli. Era stato arrestato il 21 marzo con l’amico e collega Giangio Banfi per l’attività nel Partito d’azione e la collaborazione con i primi gruppi di partigiani. Dopo la quarantena Belgiojoso viene trasferito a Gusen 1, Banfi a Gusen 2. Si ritrovano nel marzo del ’45 nel blocco infermeria: Banfi muore il 10 aprile, a meno di un mese dall’arrivo degli americani.
Benedetto Besio: Tu hai condiviso la prigionia con Lodovico Belgiojoso; come avvenne il vostro incontro?
Germano Facetti: Lodo arrivò a Gusen qualche mese dopo di me, nel settembre del ’44; il suo numero di matricola era 82266: ciò significa che in cinque mesi erano arrivati quasi trentamila prigionieri…
BB: Vi conosceste a Gusen?
GF: Sì. Allora non conoscevo ancora personalmente Lodo, anche se la sua famiglia era spesso nominata in casa mia: i Barbiano di Belgiojoso abitavano a poche decine di metri da noi e mio padre, tappezziere, aveva lavorato spesso per loro. Dopo il suo arrivo a Gusen stringemmo rapidamente un’amicizia forte e destinata a durare tutta la vita.
BB: Allora Belgiojoso aveva 35 anni ed era già un architetto noto e un protagonista della cultura italiana. Raccontami del suo atteggiamento di fronte all’abisso in cui eravate precipitati. Quali relazioni aveva con gli altri prigionieri?
GF: Lodo era straordinariamente coraggioso e determinato a resistere, a mantenere integra la sua dignità, a conservare la sua libertà interiore. Ed era molto generoso. Il suo tratto profondamente aristocratico era aperto a cogliere l’umanità nelle persone di ogni condizione. Le sere, e nei pochi momenti di riposo che ci erano concessi, a bassa voce e guardando altrove per evitare le punizioni dei Kapò, ci raccontava la storia degli Sforza a Milano, ci spiegava come costruivano gli architetti italiani del Rinascimento, ci ripeteva le poesie dei lirici greci… parlandoci del bello, dei valori della cultura, liberava le nostre menti dall’orrore quotidiano e ci consentiva di sperare ancora: l’unico modo per non arrendersi alla bufera che ci assediava. Era davvero l’erede dei grandi umanisti che hanno segnato la migliore cultura italiana. Molto spesso scriveva delle poesie e in quei momenti di precaria quiete ce le recitava: spesso l’intensità e la forza delle sue parole giungevano anche a compagni che non capivano una parola di italiano.
BB: Tu mi hai raccontato che, lavorando negli uffici del campo, avevi la possibilità di procurarti carta, matite, penne, colori: parlami dei piccoli libri che producevi allora. Li hai conservati?
GF: Lodo una volta mi chiese di imparare a memoria le sue poesie: desiderava che, se fosse morto, io le recitassi ai suoi figli perché potessero ricordarlo. Così sulla poca carta che sottraevo – con grandi rischi: si poteva essere uccisi per qualunque piccola mancanza – presi a trascrivere le sue poesie. Poi, tagliata con cura la carta, cucivo dei piccoli libri con fili di rame – pochissimi – di solito utilizzati per attaccare i bottoni dei vestiti. Noi, che eravamo ormai completamente nudi davanti ai nostri aguzzini, possedevamo di nuovo qualcosa di nostro: ci era restituita la sensazione di essere vivi. Uno di quei libriccini, con altri ricordi dolorosi, l’ho sempre conservato in una scatola per carta fotografica, la mia yellow box, che per molti anni non ho mostrato a nessuno, e che neppure mia figlia ha mai voluto guardare… Ma ora, nella mia vecchiaia, e in questi tempi oscuri di fondamentalismi, di guerra e di morte, sento la necessità di raccontare, perché i più giovani conoscano quello che noi abbiamo vissuto, e possano capire a quali bestialità può condurre l’odio.
BB: Nella yellow box ci sono anche i disegni che Belgiojoso faceva nel campo...
GF: Disegnava con lo stesso intento di sopravvivenza e di ribellione all’annientamento; con tratti veloci ha rappresentato molte delle scene strazianti che vivevamo… Solo in un’occasione fece anche una sorta di progetto di una “casa sulla collina” per un polacco, in cambio di una razione di zuppa supplementare… Io lo imitavo, ma i miei disegni erano molto più impacciati…
BB: So che tu, al momento della liberazione da parte degli americani, hai ottenuto di andare a cercare Belgiojoso che da qualche tempo era sparito dal campo…
GF: Sì. A Gusen si era sparsa la voce che Belgiojoso fosse stato fucilato o comunque fosse morto. Ottenuta la disponibilità di un’automobile, con un gruppo di italiani ci mettemmo alla sua ricerca nei dintorni del campo; lo ritrovammo nella vicina Gunskirchen, dove era stato trasferito alla fine di aprile insieme a un architetto e a un geometra polacchi, per progettare e realizzare un piccolo acquedotto per fornire l’acqua al campo. Lo riportammo con noi a Mauthausen. Dopo poco tempo, un’ambulanza mandata dalla sua famiglia lo riportò a Milano, con alcuni di noi. Io rimasi ancora qualche tempo nel campo: lo rividi a Milano al mio ritorno. La prigionia era finita. Successivamente i ricordi della vita nel campo sono stati, come sempre, spaventosi e angoscianti, quasi da non giustificare il riprendere di una vita normale. Ma nel baratro dove la violenza supera ogni limite, dove uomini giocano con le vite di altri uomini, dove la sopravvivenza è solo per i più forti, ho incontrato, soprattutto in Lodo, anche l’umanità che resiste a ogni privazione e a ogni insulto, mantenendo la dignità del pensiero, la speranza del riscatto attraverso la cultura umiliata dalla barbarie. In breve: Belgiojoso ha indicato la via a tutti noi.
BB: Come fu il vostro ritrovarvi a Milano?
GF: Dopo la liberazione ho vissuto un periodo di sbandamento e di grande difficoltà: ero senza lavoro e senza istruzione. Allora Lodo, con la consueta generosità, mi offrì l’opportunità di frequentare lo studio BBPR come disegnatore; mi occupai per esempio della costruzione del modello del Monumento ai morti nei campi di Germania per il Cimitero di Milano. Nel frattempo venivo sollecitato a riprendere gli studi e stimolato amorevolmente, e discretamente, a interessarmi di molte cose: per Rogers per esempio eseguii ricerche negli archivi di Domus e presso l’atelier Le Corbusier.
BB: In quel periodo, nel 1949, Peressutti organizzava il CIAM di Bergamo…
GF: Partecipai con entusiasmo agli incontri di Bergamo, per i quali lavorai alla preparazione dei manifesti: vissi un meraviglioso periodo di rinascita. Fu allora che conobbi Mary, una giovane inglese, architetto, che lavorava da BBPR, che divenne mia moglie: ancora per mezzo di Lodo…
BB: Poi ti distaccasti dallo studio BBPR…
GF: Ero sempre più insofferente al vedere liberi a Milano personaggi che ci avevano fatto tanto male: allora, incoraggiato da Belgiojoso e Rogers, mi trasferii a Londra, dove intrapresi il lavoro di designer. Ma, anche se distanti, il nostro vincolo di amicizia è rimasto sempre saldo; il suo coraggio e la sua dirittura sono stati per me un insegnamento incancellabile e resteranno per me sempre vivi.
Germano Facetti a Londra inizia l’attività di designer, lavorando a lungo per British Olivetti per l’allestimento di negozi ed esposizioni in Inghilterra; la sera studia design e tipografia alla London Central School of Arts and Crafts e indirizza sempre più il suo interesse alla grafica e all’editoria. Nel 1956, con Theo Crosby realizza “This is tomorrow”, rassegna che segna una tappa fondamentale per l’arte contemporanea europea; progetta le prime mostre a Londra sulla creatività italiana “Italian Industrial Design” nel 1955, e “Italian Contemporary Architecture” nel 1966. Contemporaneamente lavora per le edizioni illustrate di Jonathan Cape e per altri editori, fino ad approdare a Penguin Books, dove dal 1960 al 1972 svolge l’attività di art editor, portando un decisivo contributo innovativo soprattutto alle edizioni tascabili. Dal 1967 al 1969 è presidente dell’Alliance Graphique Internationale. Nel 1971 per Vista Books pubblica, con Alan Fletcher, un’antologia illustrata dell’identità grafica Identity Kits: A Pictorial Survey of Visual Signals. Nel 1972 lascia Londra per tornare in Italia dove si dedica ad attività di consulenza editoriale e insegnamento in Inghilterra e negli Stati Uniti. Oggi vive ritirato con l’amata Mary in una casa tra gli ulivi sulle alture di Sarzana, ma sempre viva è la sua attività di ricerca e di elaborazione di materiali e ricordi raccolti in una vita vissuta con generosità. La figura alta e diritta, gli occhi chiari penetranti alla perenne ricerca di connessioni tra le cose, le storie, i volti, Germano continua a percorrere la faticosa strada, iniziata a Gusen con l’amico Lodo, di chi ha conosciuto l’orrore inenarrabile ma ha rifiutato l’odio.