Peter Eisenman. Labirinto di cemento

A otto anni dal concorso, si inaugura a Berlino il memoriale per gli Ebrei d’Europa, che Peter Eisenman ha concepito come uno sterminato, ossessivo reticolo di stele di cemento. Testo di Marco Belpoliti. Fotografia di Joseph Grima. A cura di Rita Capezzuto
 
Che cos’è un monumento? Un’opera, una scultura, a volte persino un’architettura, che serve a ricordare. Cosa? La morte. Frate Egidio, cui dobbiamo un’antica esposizione dei Vangeli in volgare, afferma che le sepolture sono dette ‘monumenti’ perché devono ammonire gli uomini a pensare che il loro destino è morire. Da diversi secoli in Europa i monumenti svolgono uno scopo analogo: ci ricordano i caduti, le migliaia di uomini e donne che sono morti nel corso di una battaglia, di un bombardamento, di un eccidio, di una strage, di una guerra. Come spiega lo storico Reinhart Koselleck, sino alla Prima guerra mondiale i monumenti alla memoria erano dedicati ai re e venivano edificati seguendo un’antica iconografia: San Giorgio a cavallo che abbatte il drago, il cui primo modello sorge a Praga nel 1373.

Ma a partire dagli anni Dieci del XX secolo, a Marylebone in Inghilterra e a Regen in Germania il soldato semplice prende il posto del Sovrano.

È la democratizzazione del ricordo della morte. Koselleck sostiene che la memoria dei nomi dei soldati periti nel conflitto, la loro iscrizione nel monumento, nei tanti monumenti che si ritrovano in tutti i paesi e i villaggi europei, è l’effetto della creazione degli eserciti popolari a partire dalla Rivoluzione francese, che chiamò alle armi i suoi cittadini per difendere gli ideali dell’89 ed esportarli sulla punta delle baionette in tutte le nazioni d’Europa. I monumenti sono saldamente legati alla guerra, anche se mantengono nell’iconografia, scrive Koselleck, un’origine monarchica. A suo parere uno dei più grandi avvenimenti del Novecento è la democratizzazione della morte nel monumento al Milite ignoto, il quale simboleggia “l’anonima morte di massa”, segno tangibile di una “comunità strutturale, per così dire antropologica”.

Almeno fino agli anni Trenta del XX secolo l’idea del monumento è rimasta legata all’immagine della morte gloriosa, una morte che sembrava ancora possedere un senso: essi sono caduti per la Patria. Ma a partire dal conflitto scatenato in Europa dal nazismo e dal fascismo, ogni idea di guerra giusta – già messa in discussione dopo il grande massacro del 1914-18 – è tramontata. Nessuna guerra appare degna di un monumento, forse neppure le guerre vinte dagli Alleati che hanno lasciato milioni di morti sui campi di battaglia e nelle città rase al suolo nel corso del Secondo conflitto mondiale.

E i morti dei campi di prigionia, e dei lager, i morti dello sterminio nazista, che monumento possono, debbono avere? Peter Eisenman ha affrontato questo problema, dando corso a una precisa volontà dei promotori e dei committenti del monumento agli ebrei d’Europa uccisi nelle camere a gas, sul bordo delle fosse comuni, abbattuti dalla furia omicida di uomini e donne che hanno organizzato un insensato sterminio utilizzando al suo punto culminante i sistemi dell’industria moderna. L’incarico era di erigere un monumento senza nomi e senza dedicazione, costruito nel centro di Berlino, vicino alla Porta di Brandeburgo, a poca distanza dal bunker della Cancelleria di Adolf Hitler, lungo la linea dove sorgeva il Muro e nei pressi delle ipermoderne sedi delle istituzioni governative e parlamentari della nuova Germania.

Ho visitato il monumento composto di 2.511 stele durante il mese di marzo, quando non era ancora stato completato in tutti i suoi dettagli e una grossa nevicata lo aveva parzialmente ricoperto e reso ancora più suggestivo: un grande sepolcreto, una vasta area cimiteriale composta da tombe tutte della medesima forma, dimensione e colore. La sepoltura anonima, uniforme, omogenea dei grandi cimiteri militari della Seconda guerra mondiale, per lo più segnata da cippi o croci bianche, simbolo dell’eterno riposo, qui si trasforma in qualcosa di diverso, d’inquietante per paradosso: qui non ci sono corpi sepolti (i morti dei campi di sterminio sono nel vento).

Avvicinandosi all’area si comprende che le tombe non sono tutte uguali, che possiedono non solo una dimensione superiore, ma anche una inferiore. Verso il centro della necropoli postmoderna le casseforme di cemento sprofondano verso il basso, rivelando una valenza ctonia, inaccessibile a un primo sguardo. Alte qualche centimetro sui bordi del campo, le urne tendono a crescere man mano che si cammina verso il centro del monumento – per altro irraggiungibile, sia geometricamente sia simbolicamente.

Lì i sacelli, simili alle tombe che si scorgono in alcuni affreschi della pittura rinascimentale, si trasformano in monoliti che ricordano l’‘oggetto’ misterioso di 2001: Odissea nello spazio. Le stele hanno tutte la medesima dimensione; la faccia superiore, il coperchio, è di 95 per 238 centimetri. Sono composte di un beton grigio, tendente al nero, affilato sugli spigoli. Al centro sono alte sino a 4 metri, e si trasformano in alberi fossili – una foresta di pietra –, tutti perfettamente squadrati, e tuttavia producono prospettive sghembe nelle diverse direzioni.

Da fuori non si vede il ‘dentro’, ma neppure da dentro si scorge il ‘fuori’, perché le stele non sono perfettamente perpendicolari: le loro superfici superiori e laterali sono leggermente inclinate, così da suggerire un mancato allineamento. L’irregolarità, l’instabilità è consostanziale con un altro elemento architettonico su cui s’impernia il monumento di Peter Eisenman: l’idea di ‘inframezzo’, di ‘interstizio’. Lo spazio definito dai monoliti è infatti uno spazio ‘tra’, qualcosa che si produce per assenza, mancanza, come se questo luogo fosse accessibile solo per sottrazione.

Questo è il tempo abitato delle vittime, il loro, ma anche il nostro tempo: un tempo sospeso, interrotto, virtuale, e tuttavia presente. L’aspetto anonimo dell’intera architettura, priva di nomi, parole, acquisisce un senso proprio nei corridoi centrali là dove, sprofondando e innalzandosi, le arche grigie disegnano la nostra possibile forma di permanenza nel tempo, e nello spazio – il tempo come corridoio e, più astrattamente, come “sistema nervoso dello spazio”. Una delle questioni che Koselleck ha posto nel suo saggio, I monumenti: materia per una memoria collettiva?, riguarda la questione stessa del ricordo.

Nella nostra cultura si parla spesso di “ricordo collettivo”, di “memoria collettiva”, come se esistesse davvero un soggetto collettivo in grado di ricordare. In verità, come ciascuno di noi sperimenta ogni giorno, il ricordo è strettamente personale: le esperienze dei singoli non sono interscambiabili. Anche quando riguardano un comune evento traumatico o terribile, i ricordi restano individuali. Ogni persona ha diritto a un suo ricordo, senza il quale non è possibile vivere. I monumenti lavorano invece per trasformare i ricordi dei singoli in una memoria condivisa. Non sempre ci riescono. A volte forzano i ricordi dei singoli in una direzione ‘politica’, ideologica. Eisenman sembra essersi posto questo problema: trasformare il monumento in un’esperienza individuale. Per quanto inabitabile, questo spazio è infatti percorribile: non ci sono né barriere né cancelli.

È aperto giorno e notte. La visita sarà sempre possibile. Come nel monumento che Maya Lin ha creato per i 60.000 caduti americani in Vietnam, il Vietnam Memorial di Washington – una lastra di granito nero, lucido, su cui sono incisi tutti i nomi e in cui i visitatori finiscono per specchiarsi – anche a Berlino la struttura progettata da Eisenman produce un’esperienza spaziale, rovesciando la sua natura sepolcrale esterna. Ricordo dei morti, ma anche meditazione sul nostro spazio vitale. Per questa ragione la successiva costruzione dell’Ort der Information (Luogo dell’informazione) sotterraneo, posto sul lato estremo della foresta di stele, in cui trovano posto l’archivio dei nomi, fotografie, bacheche e altri servizi, risulta svilente. Una concessione posticcia e tardiva alla necessità di informare e commentare che evidentemente ossessiona i committenti tedeschi.

Tutto il contrario di quanto Eisenman si proponeva. Nell’Ort der Information la memoria collettiva prevarica su quella personale o almeno ne smorza la difficile dialettica. La didattica prima di tutto? Una debolezza imperdonabile? Oppure la necessità di produrre ancora una volta una “memoria politica”, politicamente corretta?

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