Nella Londra turrita del capitale vacillante, un falso allarme fa incontrare gli unici due inquilini di un palazzo moderno. Una prima esitazione, poi la storia diventa quella della loro storia. Incontri a casa di uno dei due che diventano giornate intere, poi il desiderio di uscire assieme, “nel mondo”. Una certa linearità, tutto sommato: non fosse che uno dei due ha perso entrambi i genitori anni prima, dodicenne; che è tornato alla casa dove è cresciuto, e che lì i genitori lo hanno accolto di nuovo.
Giovani, più giovani di lui oggi, appartenenti a quegli anni ’80 in cui sono morti, e felici di rivederlo dopo tanto tempo.
(Modesto, come spoiler: qui siamo a 20 minuti di film circa)
In All of us strangers, in italiano Estranei, con Andrew Scott, Paul Mescal, Claire Foy e Jamie Bell, il regista Andrew Haigh si spinge al di là dei tòpoi del queer drama esplorati nel 2011 con Weekend – gay drama, per maggior esattezza: il coming out, l’accettazione, l’esternazione di sentimenti e sessualità – e si tuffa dentro urgenze dell’oggi, a costo di far ripetere più volte, davanti a tante preoccupazioni espresse dai genitori che sanno di passato, che “non è più così”, gli scogli sono altri.
Questo film è fatto di sofferenze totalmente contemporanee, e lo spazio è la loro componente fondamentale.
È un film fatto della solitudine solida, quasi impenetrabile, delle poche persone che davvero lo popolano, un tipo di solitudine che in nessun modo è rintracciabile in film dei decenni passati perché è un modello di solitudine tutta “nostra”, e di quei decenni è il risultato postumo, è il codice relazionale delle città contemporanee nell’era del tardo capitalismo, o come la si vuol chiamare.
Questo film è fatto di sofferenze totalmente contemporanee, e lo spazio è la loro componente fondamentale.
Il palazzo innanzitutto, il palazzo dove tutto succede, locandina inclusa. Ci troviamo a Insignia Point, nel Victory Plaza, un complesso di fascia alta sviluppato dalla firm Lifschutz Davidson Sandilands, con l’engineering di Arup, per un fondo anglo/qatariota, completato nel 2019 su quello che era il sito del villaggio olimpico del 2012: qui, in un paesaggio di appartamenti sfitti, ci vivono solo in due. Una location ed un’architettura quasi simboliche di una Londra solo e soltanto odierna, per un’immagine allegorica di una forma del sentire che è soltanto odierna. Nessun mattone della distopia che si va costruendo nel film arriva (almeno per buona parte della sua durata) dall’esterno delle persone, cioè dallo spazio urbano o domestico: appartamenti di un certo lusso, viste maestose, arredi che comunicano la solidità di una posizione, qualche pezzo di design (va detto che, per chi il design si trova a praticarlo con frequenza, riconoscere una Plissé di De Lucchi nell’angolo di una delle scene forse più difficili può risultare perlomeno vicino alla cura Ludovico di kubrickiana memoria).
La città però è lontana. Lo spazio sopra e sotto i protagonisti, per piani e piani, ripetiamolo, vuoto. E vien quasi da dire che quand'anche fosse pieno non farebbe differenza alcuna.
“Voglio uscire, con te, nel mondo” dice allora uno all’altro. E il mondo sta facendo festa alla Royal Vauxhall Tavern, uno degli epicentri più storici nella geografia queer della città, quello dove, vuole la leggenda, era cominciata l’unica serata nel più assoluto e goduto anonimato che Freddie Mercury e la principessa Diana si poterono concedere in tutto un decennio delle loro vite. Quelle delle due icone in incognito e quelle dei nostri due protagonisti suonano tanto simili alle “affollate solitudini” che secondo Ugo La Pietra tutti viviamo, ma lo fanno in modi molto diversi. Nel film, la serata poco potrà contro un doloroso ritornare verso un luogo che non appartiene all’oggi.
@tanzey_ Plz dont take this down its my best edit also what a mf film #fyp #edits #allofusstrangers #allofusstrangersedit #andrewscott #paulmescal ♬ original sound - tanz ッ
Ed ecco la casa dei genitori del protagonista, nei sobborghi (peraltro è vera casa d’infanzia del regista, a Croydon) dove lui li va a trovare, va a trovare il passato che deve imparare a lasciar andare. Si susseguono più e più visite, si riprendono discorsi dove quasi quarant’anni prima li si era lasciati. E lo spazio è domestico familiare, anni ’80 – e come ormai da molte direzioni si fa notare, gli anni’80 non sono colore. Cyndi Lauper è colore, Boy George è colore. Gli anni ’80 dell’abitare delle masse invece sono inappellabilmente marroni.
Ed è tale la solitudine che irradia nell’oggi da quella Londra contemporanea, da quella casa contemporanea e dai suoi arredi così atemporalmente e apaticamente ricchi, tale la solitudine degli individui come veri spazi interni che si proiettano urlati sull’esterno respingendolo malamente ai bordi della scena, che il passato prende sempre più la forma di un luogo fisico, il passato diventa l’unico spazio in cui sembra si riesca davvero ad abitare.
Spazi del passato ancora fisicamente presenti nell’oggi – villette, prati, centri commerciali dalle origini thatcheriane – ma che possono esistere solo se riempiti di quel che li riempiva ieri, spazi di storie mai esistite, spazi mentali costruiti dalla ketamina di una sera: qualsiasi spazio vale, purché non siano quelli di un qui e ora che assorda col suo vuoto e con la sua assenza di suono, un’assenza che uno dei due protagonisti si troverà a soffrire oltre i limiti.
È probabile che a Haigh dobbiamo della gratitudine, per aver richiamato l’attenzione su che forma asfissiantemente individuale abbiano le fatiche dell’esistere oggi, ma anche e forse soprattutto per aver parlato per quasi due ore di generazioni, di case, e di città.
Immagine di apertura: Andrew Haigh, All Of Us Strangers, 2023. Courtesy Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Right Reserved