Il tema dell’abitare collettivo ad alta densità è frequente nella storia dell’architettura e non privo di complessità.
La progettazione di interventi residenziali di grandi dimensioni e ad elevata concentrazione insediativa scaturisce, di norma, dall’esigenza di soddisfare la richiesta abitativa di un’utenza vasta e bisognosa, particolarmente urgente soprattutto in determinati periodi storici come durante la ricostruzione post-bellica, il boom economico o a seguito degli imponenti flussi di inurbamento che investono periodicamente le città contemporanee.
L’architettura ha elaborato i suoi modelli per fare fronte a queste emergenze: “macro-architetture” in grado di offrire a moltitudini in difficoltà una casa economicamente accessibile, ma anche “microcosmi” autosufficienti dotati di servizi e infrastrutture, dove l’equilibrio tra spazi privati e pubblici contribuisce a generare identità di luogo e senso di comunità. A partire dall’Unité d’ Habitation di Le Corbusier ne sono un esempio diverse opere che, al di là delle differenze e degli esiti effettivamente conseguiti, hanno avuto come comune denominatore una visione di architettura eminentemente sociale, tesa a cogliere le dinamiche evolutive della città contemporanea e le problematiche ad esse correlate, trasformandole in sfide progettuali: dalle costruzioni laconicamente anti-edoniste e funzionali del Brutalismo (Oscar Neimeyer, Luigi Carlo Daneri, Jean Renaudie e Renée Gailhoustet, Mario Fiorentino), agli organismi modulari e assemblabili del Metabolismo (Yoji Watanabe) e quelli ad essi ispirati (Aldo Luigi Rizzo, Zvi Hecker), alle realizzazioni ironiche e spregiudicate del Postmodenismo (Manuel Nunez Yanowsky), fino ad interventi più recenti (BIG).
Tuttavia, se il fascino utopico del Falansterio prefigurato da Charles Fourier – il ciclopico edificio collettivo in grado di ospitare tra 1.600 e 2.200 persone – ha sedotto anche Le Corbusier, oggi questo termine viene dispregiativamente associato ad un modello architettonico disumanizzante e massificato, spesso riconoscibile nei cosiddetti “alveari” straripanti di persone e degrado fisico e sociale che punteggiano le periferie di tutto il pianeta.
Indipendentemente da giudizi di merito sulle opere, il cui successo è spesso demandato non solo alla qualità progettuale ma anche – e non secondariamente – a politiche pubbliche efficienti e adeguate, il tema della grande scala e della densità nell’architettura residenziale resta ancora oggi pregnante.
Come afferma il sociologo Richard Sennett su Domus 1046, se da un lato la densità è spesso considerata la genesi di tutti i mali – dal congestionamento del traffico, alla criminalità, alla scarsa qualità architettonica – dall’altro “la densità è la logica delle città” e costruire in densità può significare ridurre il consumo di suolo, abbattere l’impatto ambientale della mobilità grazie alla riduzione delle distanze, favorire la costruzione di reti relazionali in una logica di prossimità, come auspica la teoria introdotta da Carlos Moreno della “città dei 15 minuti” secondo cui un abitante può accedere a piedi a tutto ciò di cui ha bisogno in un lasso di tempo brevissimo.
È ovvio che la densità edilizia senza una visione programmatica e multisettoriale di sviluppo urbano innesca processi patologici degenerativi in cui i fenomeni di decadenza sono più esacerbati.
Tuttavia, in un tempo di crisi delle risorse naturali e in una società sempre più globale e “liquida”, per citare Zygmunt Bauman, dove i confini e i riferimenti sociali sono sempre più sfumati e l’isolamento interpersonale una forma d’abitudine, non sembra inappropriato riflettere sullo schema della macrostruttura residenziale ad alta concentrazione, con tutte le luci e le ombre che comporta: da contenitore di disagio stagnante, a possibile ecosistema urbano funzionale e funzionante.
Megacondomini, alveari, falansteri: 12 edifici abitativi ad alta densità, “macro-architetture” o “micro-città”?
Dall’utopistico Falansterio, alle opere iconiche dei maestri dell’architettura, agli alienanti “alveari” delle periferie degradate, esploriamo il tema dell’abitare alla grande scala e ad alta concentrazione insediativa.
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Domus 617, maggio 1981
Domus 617, maggio 1981
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- Chiara Testoni
- 05 ottobre 2023
L’intervento nasce per soddisfare il fabbisogno abitativo del dopoguerra della popolazione di Marsiglia. Il complesso di 18 piani ospita 1.600 alloggi articolati in 337 appartamenti duplex ed è caratterizzato dall’uso diffuso del calcestruzzo grezzo. Nonostante le dimensioni monumentali che suggeriscono l’idea di de-personalizzazione e smarrimento, l’intervento rivolge un’attenzione scrupolosa agli spazi di socializzazione e ai servizi pubblici: la scuola, la biblioteca, l’asilo, l’hotel, il tetto verde, la piscina, il supermercato, la lavanderia e i negozi animano un microcosmo su pilotis autonomo e organizzato.
In cinese “Choi Hung” significa “arcobaleno” e, forse, da questa suggestione origina la scelta di utilizzare una palette di otto colori diversi per le facciate di questo gigantesco intervento di edilizia residenziale sociale ad alta densità (tra i primi ad Hong Kong), allo scopo di ingentilirne l’impatto. Il complesso comprende undici blocchi di appartamenti, un parcheggio, cinque scuole, negozi e ristoranti al piano terra dei fabbricati.
L'imponente edificio dalla forma sinuosa, alto 115 metri e distribuito su 35 piani fuori terra, fu progettato da Niemeyer per celebrare la crescita economica della città che si avviava a diventare una metropoli internazionale. L’edificio ospita oltre mille appartamenti per un totale di circa cinquemila residenti, un centinaio di uffici, una chiesa, una libreria e quattro ristoranti.
Il complesso di case popolari INA-Casa è composto da cinque blocchi, lunghi ciascuno oltre 300 metri, disposti secondo le curve di livello della collina. Complessivamente gli edifici dovevano ospitare 865 appartamenti, per una capienza complessiva di 4500 abitanti, e dovevano essere inseriti in un vasto parco con negozi e servizi, mai del tutto realizzati, a parte una scuola elementare e materna e una chiesa. La forma sinuosa delle costruzioni ha valso all’intervento l’appellativo gergale di “Biscione” e suggerisce l’andamento delle macrostrutture abitative prefigurate da Le Corbusier per Algeri, nel Plan Obus.
Considerato un esempio di architettura metabolista, leggibile nella concezione di un’opera in continua evoluzione per assecondare i processi trasformativi della metropoli contemporanea, il complesso è composto da capsule modulari fissate ad un nucleo distributivo centrale, aggregabili e sostituibili nel tempo. Diversamente da Nagakin Capsule di Tower di Kurokawa, affine per caratteristiche costruttive, funzionali e figurative, che è stata demolita, il complesso è sopravvissuto al degrado e, ristrutturato nel 2010, oggi offre abitazioni, negozi e spazi di lavoro.
Il colossale edificio di 55 piani è caratterizzato da un volume cilindrico con un nucleo interno cavo allo scopo di consentire un maggiore afflusso di luce negli appartamenti. All'epoca della costruzione un appartamento in Ponte City era molto appetibile; dopo una lunga stagione di degrado, dovuto allo spostamento della classe media in altri quartieri, l’edificio è stato riqualificato nel 2011 e oggi ospita migliaia di residenti.
Commissionato dal Ministero Israeliano della Casa in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 per fare fronte all’urgenza abitativa nei territori limitrofi a Gerusalemme, il complesso residenziale ad alta densità Ramot Polin è un esempio di spinta sperimentazione compositiva. L’impianto generale evoca una mano aperta adagiata sul pendio collinare, le cui cinque dita sono composte ciascuna da cinque edifici a forma di “L” assemblati in modo da creare un dinamico andamento a zig-zag, con cortili interni attraversati da percorsi pedonali, a memoria della Città Vecchia di Gerusalemme. Ogni edificio è costituito dall’assemblaggio di moduli dodecaedrici prefabbricati, ai quali nel corso del tempo sono stati aggiunti componenti cubici più convenzionali.
Nato come un ambizioso progetto dell’Istituto Case Popolari alla fine degli anni ’70, il complesso rappresenta l’utopia del Falansterio ovvero di una città racchiusa dentro ad un edificio, come rappresentata anche dal Karl Marx Hof e dall’Unité d’Habitation. Il complesso è formato da tre edifici: il corpo principale lungo quasi un chilometro che si estende su nove piani, uno più basso parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Stigmatizzato come emblema del degrado delle periferie, evoca ancora oggi riflessioni diffuse sui temi della partecipazione e della comunità.
Il macroscopico intervento residenziale, situato nella new town di Marne-la-Vallée per fare fronte all’emergenza abitativa della capitale, è diventato un landmark inconfondibile nel territorio per le sue dimensioni e caratteristiche compositive. L’intervento di ispirazione postmodernista è caratterizzato da una corte ottagonale attorno a cui si distribuiscono i blocchi edificati in cemento armato prefabbricato sostenuti da portici con arcate: alle estremità, due imponenti edifici a forma di disco di 50 m di diametro rappresentano l'allegoria dell'alba e del tramonto. Il complesso che ospita 540 alloggi sociali, negozi e un parco giochi oggi non è indenne da fenomeni di degrado fisico e sociale.
L’intricato complesso abitativo nella banlieu parigina, con volumi sfaccettati, gradonate in cemento e terrazze alberate, esplora i temi dell’articolazione spaziale, della flessibilità, del rapporto con il verde, in netta contrapposizione con le rigide norme che regolamentavano l’edilizia sociale del tempo. L’architetto Renée Gailhoustet, di recente scomparsa, ha vissuto qui per anni in uno degli appartamenti da lei progettati.
Conosciuto come le “Lavatrici”, la “muraglia” abitativa nel quartiere San Pietro di Genova trae ispirazione dal movimento metabolista giapponese e dalla lezione di Archigram. Il complesso rientrava in un progetto urbano più ampio successivo alla legge 167 del 1962, che imponeva ai comuni sopra i 50.000 di costruire edilizia economica popolare. L’intervento consiste in quattro unità di diversa proprietà (comunale, privata o di cooperative). Originariamente concepito come un sistema autonomo e funzionante, dotato di servizi e infrastrutture, il complesso è oggetto di critiche radicali, dovute allo stato di degrado a cui è sottoposto a causa dell’impiego di materiali scadenti, all’ assenza dei servizi prefigurati e a scelte viabilistiche sbagliate che lo hanno isolato dal quartiere.
Il complesso situato a Ørestad, quartiere cool di Copenhaghen e “terra di mezzo” tra città e campagna, gioca sul tema del rapporto simbiotico tra uomo e macchina, tra spazio abitativo e parcheggio. Il programma prevede 2/3 di parcheggio e 1/3 di abitazione: la piastra del mastodontico parcheggio, per 480 posti, è la base su cui sono collocati gli 80 appartamenti, disposti su dieci piani “a cascata”, dotati di giardini pensili alberati. I fronti nord-est, in lastre di alluminio traforato, evocano il profilo del monte Everest, ambizioso termine di paragone con cui si confronta questa ciclopica architettura urbana.