Nel 1900 Robert C. Spencer descriveva l’amico e collega Frank Lloyd Wright come colui che “disprezzando la via facile e comune e a suo agio invece tra lo splendore delle foreste e delle praterie in fiore del suo paese, ha dato un’interpretazione molto intelligente dell’odierno significato di architettura”.
In effetti Wright ha rifondato la cultura progettuale americana, facendo piazza pulita dei rigurgiti “in stile” per coniare un lessico originale concentrato su un unico grande obiettivo: instaurare un rapporto degno ed equilibrato tra artificio, tecnologia e natura. Da qui la genesi del suo pensiero, straordinariamente precursore dei tempi in relazione ai temi della sostenibilità ambientale e del rapporto con il contesto, che si concretizza in ambito residenziale nelle “prairie houses” (Robie House): abitazioni in totale sintonia con il paesaggio, fatte di volumi bassi e minimali e coperture a sbalzo spesso esorbitanti, a suggerire l’idea che la casa è uno spazio organico in sintonia con i ritmi dell’uomo e delle stagioni (Taliesin West, Fallingwater). Con la concezione delle case “usoniane” dagli anni ’30 in poi, Wright approda ad una versione di abitare più abbordabile per la “middle class”, perché nella sua visione di architettura “democratica” non concepiva che la qualità abitativa fosse appannaggio di pochi: tipicamente residenze a pianta regolare, libera e flessibile, ad un solo piano, con materiali semplici e naturali (Hanna-Honeycomb House, Rosenbaum House, Cedar Rock, Kentuck Knob, Muirhead Farmhouse).
Un lavoro lungo settant’anni, dai deserti alle montagne, dalle metropoli alle foreste, tra milionari e ceto medio a significare che, come diceva l’architetto, “risultato dell’arte del costruire dovrebbe essere una poetica serenità anziché una “efficienza” mortale”.
Molte abitazioni di Wright oggi sono scomparse, alcune sono di proprietà privata, altre sono accessibili al pubblico. Di seguito, un breve viaggio attraverso le opere, visitabili, di un uomo e i suoi sogni.